Credito, conti pubblici e industria. Tre lezioni dal Monte
Dopo oltre dieci anni di tormenti, il Monte dei Paschi ha regalato una parentesi di normalità: lo Stato azionista vende una quota, il mercato compra. E pure paga, al punto da consentire al Tesoro una ricca plusvalenza sui prezzi (ancora stracciati) a cui era stata condotta l’ultima ricapitalizzazione un anno fa, proprio mentre l’uscita di Mario Draghi da Palazzo Chigi sembrava destinata a compromettere il rischio Italia e l’esito di un’operazione già di per sé alquanto spericolata.
La parabola del Monte dei Paschi, a cavallo tra finanza, economia, politica, territorio, (ex) poteri forti domestici e nuovi poteri forti globali, da sempre è paradigmatica di vizi e virtù del sistema Paese, di quello che può e quello che ottiene sui mercati e dai regolatori, tra Francoforte e Bruxelles. Dunque c’è da riflettere sul buon esito di questa semiriprivatizzazione della banca più antica del mondo, giunto proprio mentre l’Italia esce decisamente meglio del previsto dagli esami d’autunno delle agenzie di rating e da un giudizio leggermente peggiore delle attese da parte della Commissione europea sulla Finanziaria in gestazione.
Dopo aver preso lezioni da tutti per anni, in questa fortunata puntata Mps ne suggerisce almeno tre. La prima è sul valore del tempo e delle ristrutturazioni: nessuna causa è persa se il sottostante merita e lo sforzo è reale. Il vertice e la base azionaria di Siena oggi incassano il frutto dei sacrifici loro e di chi li ha preceduti, dentro e fuori dalla banca, nelle prime linee del management così come nella rete delle filiali, capaci di non soccombere alla pesante razionalizzazione imposta dalle circostanze. L’istituto oggi punta a chiudere il bilancio 2023 con utili per un miliardo: sono stati anni duri, ma non del tutto vani. E l’epilogo (parziale) suggerisce che forse lo stesso potrebbe dirsi per altre realtà eternamente a metà del guado, tra sopravvivenza e rilancio vero.
La seconda lezione riguarda l’industria bancaria, il momento storico che sta attraversando e le ripercussioni sul credito. Con i tassi destinati a restare oltre il 4% almeno per altri sei mesi, come ha fatto intendere la presidente della Bce Christine Lagarde una decina di giorni fa, l’attività tipica delle banche – cioè prestare denaro – resterà remunerativa a lungo, e per ora poco importa se così facendo si stanno gettando le premesse per future ondate di crediti deteriorati. Per l’intero settore italiano i bilanci 2023 dovrebbero chiudersi con utili sopra i 40 miliardi, tre volte la media degli ultimi cinque anni: non è certo una colpa delle banche, ma dopo il maldestro tentativo di colpire gli extraprofitti attuato dal Governo è lecito domandarsi come abilitare un maggior sostegno del settore a favore dell’economia. Ostaggio di una iperregolamentazione pensata negli anni passati con l’obiettivo di prevenire anzitutto i rischi di credito, gli istituti sono troppo spesso spettatori passivi di un’industria che investe poco e di famiglie che ricevono meno di quanto si meritano, come rivelato oggi dall’inchiesta di Avvenire sui mutui per i nuclei numerosi.
La partita è complessa e si gioca su più tavoli, ma l’Italia – molto più bancocentrica del resto d’Europa – non dovrebbe sottovalutarla. Il terzo spunto riguarda le ambizioni in materia di privatizzazioni e di politica industriale. Il miliardo scarso incassato dalla cessione del 25% di Mps è il primo e più facile passo di quel piano da 20 miliardi di privatizzazioni inserito nella Nadef. Molto più difficile scorgere i prossimi, perché cedere il 40% che resta del Monte sarà più difficile e gli altri potenziali dossier – dalle Ferrovie fino ai gioielli di famiglia come Eni ed Enel – sono tutti da pensare. Ma, anche qui, se c’è una strategia la strada può essere in discesa: il Monte ha mercato perché ci può essere di nuovo voglia di aggregazioni bancarie, altrove si possono costruire condizioni altrettanto interessanti.
Il buon esito del blitz su Siena rende l’Italia, e il Tesoro in modo particolare, un interlocutore un po’ più credibile di qualche tempo fa. Ci sono diversi fronti, ad alto tasso di valenza industriale e politica, su cui questa credibilità meriterà di essere spesa al meglio. Basta pensare alla costruzione di una rete unica delle telecomunicazioni intorno a Cassa depositi e presiti, Telecom Italia e il fondo americano Kkr, con possibili e future integrazioni con Open Fiber ma con l’ostacolo dei francesi di Vivendi. O il futuro sostenibile di cui ha bisogno l’Ilva, tuttora appesa agli umori di ArcelorMittal e a velocità perennemente ridotta.
O ancora dell’industria italiana dell’automobile, un sistema che all’estero ha saputo internazionalizzarsi ma in casa è ormai regredito a meno di 500mila vetture prodotte l’anno, un ottavo di quelle tedesche e un quarto di quelle spagnole: il 6 dicembre si terrà un nuovo incontro tra il Governo e Stellantis per il tanto atteso piano nazionale di settore, e oltre a ribadire l’obiettivo del milione di auto da produrre in Italia sarebbero auspicabili dettagli sul come, sul quando e sul dove.