Terrorismo. Tre attentati, due reazioni, una sfida di saggezza
Da Christchurch, Nuova Zelanda, alla strada Paullese, Lombardia, passando per Utrecht, Paesi Bassi, il trinomio immigrazione- islam-terrorismo è tornato in prima pagina nelle sue opposte versioni.
Poche questioni oggi forse incendiano gli animi come quelle legate alle migrazioni internazionali e all’alterità religiosa che importano. E a volte l’incendio scoppia davvero. La guerra contro il sistema, l’ordine costituito, i nemici ignari eretti a bersaglio, un tempo si rivestiva di categorie politiche, oggi si giustifica dietro categorie pseudo-religiose e culturali. Con l’islam trascinato al centro della contesa, o per massacrarne i fedeli o per farne la bandiera dei suoi pretesi combattenti. In tutti e tre i casi citati, per quel che finora sappiamo, si è trattato di azioni solitarie e non di attacchi organizzati o favoriti da qualche soggetto collettivo.
Ma non di meno una differenza spicca. Nel discutere dei drammatici fatti di cronaca, come ha notato l’Associazione Carta di Roma, i giornali hanno manifestato una certa riluttanza nel parlare di terrorismo per l’attentato in Nuova Zelanda. Non così per il pullman dirottato nella Bassa lombarda, e lo stesso è accaduto, dopo un paio di giorni, per il caso olandese. Il terrorismo in un certo senso recupera il suo significato etimologico: vengono percepiti e vissuti come terroristici gli attacchi che spargono il terrore nella società ricevente, spaventando la componente maggioritaria della popolazione. Quando invece colpiscono una minoranza ben individuata e circoscritta, è meno immediato definirli come atti di terrorismo. Nello stesso tempo, quando l’attentatore è bianco e occidentale, è più immediato isolarlo nella sua individualità fanatica. Quando è immigrato, scatta la tendenza a stigmatizzare gruppi interi, accomunati da religione, cultura, provenienza.
Una seconda riflessione riguarda il profilo degli attentatori. Come ormai sappiamo il guidatore sulla Paullese aveva precedenti penali, come pure l’assassino di Utrecht. Dello stragista australiano non conosciamo l’occupazione: aveva fatto un po’ di soldi con le criptovalute e poi si era messo a viaggiare. Vite marginali, alla deriva, malgrado un lavoro e la cittadinanza nel caso italiano. Come in tanti altri attentati: fallimenti personali che generano odio, attrazione verso la violenza, volontà di compiere un gesto clamoroso di radicale 'rinascita'. Non sappiamo se si possa parlare di casi psichiatrici, ma di certo i protagonisti vivevano una vita non proprio felice ai margini della società. Non potremo mai essere completamente al riparo da violenza e fanatismo, né potremo assicurare a tutti una vita di successo, ma un supplemento di prevenzione del disagio, o almeno di vigilanza nei confronti dei suoi effetti, potremmo forse chiederlo, alle istituzioni, alle cerchie sociali più vicine, e a tutti noi.
Un terzo pensiero riguarda le vittime, effettive o potenziali. Nel caso neozelandese colpisce il fatto che tra di loro c’erano persone che avevano raggiunto il lontano arcipelago fuggendo dalla guerra e dall’odio. L’odio li ha inseguiti e raggiunti quando si ritenevano ormai al sicuro. Nel caso italiano incontriamo una non sorpresa: tra i ragazzini del pullman si trovavano parecchi figli di famiglie immigrate. Alcuni naturalizzati, altri no, ma non meno italiani sotto il profilo linguistico e culturale. Strano che serva un atto straordinario per poter diventare italiani senza attendere le lunghe e incerte trafile delle norme attuali. Dividere il mondo tra 'noi' e 'loro' equivale a negare la realtà di società sempre più mescolate e intrecciate, in cui i musulmani possono essere assalitori, vittime, ostaggi, piccoli eroi. Proprio come noi.
Infine, un’esortazione. Tutti si sono resi conto che l’immigrazione è un grande fenomeno del nostro tempo, ma molti tendono a esagerarne la portata e le conseguenze. Soprattutto di fronte a eventi come questi. Non c’è nessuna invasione in corso, non siamo posti di fronte alla sfida di accogliere tutti, l’immigrazione è prevalentemente europea e femminile. L’identità culturale della nostra società, se esiste, non è di certo minacciata dagli immigrati. Si tratta di governare con saggezza società più complesse e inevitabilmente plurali. Il contrario delle invettive dell’odio in rete e dei proclami da campagna elettorale permanente.
Sociologo Università di Milano e Cnel