Opinioni

L’approccio realista sul clima. Transizione governativa

Eugenio Fatigante mercoledì 26 luglio 2023

Abituati a dividerci ormai su tutto, rischiamo la partigianeria anche sull’argomento che più di tanti altri richiederebbe di evitare divisioni: perché il cambiamento climatico è una realtà che interessa e accomuna tutti come stiamo vedendo in questi giorni, con un’Italia divisa fra zone tempestate dal maltempo e altre con lavoratori stressati dalle ondate di caldo o città assediate dalle fiamme. Senza polarizzarci sempre tra fazioni parimenti agguerrite come si è visto già sul Covid o sulla guerra, tra apocalittici (spesso di sinistra) e relativisti o “climafreghisti” (in genere vicini al centrodestra), tra chi profetizza imminenti sciagure ancora maggiori e chi fa spallucce, sostenendo che «questi fenomeni ci sono sempre stati nella storia».

In questo campo la politica – che pur, come coacervo di rappresentanze e istanze diverse, inevitabilmente risente di interessi e gruppi di pressione che possono condizionarla – è chiamata a svolgere ora più che mai un ruolo fondamentale. Ruolo che, se sviluppato, può nobilitarla agli occhi dell’opinione pubblica.

Cercando di diradare la nebbia, anziché alimentarla. Qualche primo segnale lo si è visto, negli ultimi giorni. Quasi ad aprire una breccia, di fronte all’evidenza dei fenomeni meteorologici, da ministri come Gilberto Pichetto e Nello Musumeci e ieri dal governatore lombardo Attilio Fontana sono giunte parole nuove e il riconoscimento che si tratta di fenomeni «mai visti» finora. Può essere l’inizio anche di una “transizione politica” del governo, che sembra evitare di farsi contagiare dal clima rissoso alimentato in buona parte anche da media e influencer più vicini all’area politica di maggioranza. Mostrando un approccio pragmatico e realista, e non ideologico, che merita di essere valorizzato.

Certamente, praticare il dubbio e andare controcorrente è sempre un esercizio di libertà, che va rispettato e tutelato in quanto tale, senza aderire pedissequamente a tesi e dogmi che vanno per la maggiore. Vale in ogni campo e vale anche davanti alle questioni climatiche.

Evitando posizioni estreme generalmente sempre dannose, come quelle di chi si spinge a parlare addirittura (pur solo con un intento provocatorio) di un «reato di negazionismo climatico» e chi si fa beffe dei “gretini”, come si dice volendo irridere l’attivista svedese Greta Thunberg e la sua “colpa” di preoccuparsi del futuro dei giovani. Il “sano” dubbio coltivato non deve però sconfinare nemmeno nel sistematico sospetto, quello che alimenta il pensiero che ci sia un dibattito fra opinioni contrapposte nella comunità scientifica sul tema e sulla sua origine antropica legata all’aumento delle emissioni (quando di fatto questo dibattito è minimo, invece) e alimenta anche l’illazione che ogni notizia, ogni dato siano manipolati per interessi di parte.

Quest’ultima resta una componente che esiste: sull’emergenza climatica affermata o negata ci sono anche posizioni e carriere “costruite”, perché dietro ci sono sempre anche soldi e potere. Su tutto deve prevalere però la ricerca dell’interesse supremo, compito appunto della politica, chiamata a comporre i vantaggi di parte nella ricerca effettiva del bene comune. Mistificazioni e disinformazione vanno evitate.

A ogni latitudine, perché il clima non conosce confini. Nel 2002 Frank Luntz, all’epoca sondaggista di riferimento dei conservatori americani, convinse i Repubblicani a utilizzare l’espressione “cambiamento climatico” anziché quella di “riscaldamento globale” che portava con sé connotazioni catastrofiche. Quasi 20 anni dopo, nel 2019, Luntz stesso si presentò alla commissione per la crisi climatica del Senato Usa per testimoniare invece che il cambiamento climatico «sta succedendo davvero». Gli escamotage linguistici non reggono davanti alla forza dei fatti. I quali impongono razionalità e serenità di analisi. Senza pregiudizi né negazioni aprioristiche.

E nella condivisione degli sforzi con gli altri Paesi mondiali, terreno che va sempre più battuto perché è chiaro che qui servono soluzioni internazionali più che rimedi talora assurdi o ricette solo domestiche che ci autopenalizzino, anche se dobbiamo fare comunque molto già in casa nostra a livello di maggior tutela dei territori. Anzi, pur senza voler ingolfare ancor più i lavori del nuovo Parlamento “ridotto”, davanti al proliferare di commissioni bicamerali forse il pensare a un organismo parlamentare dedicato al dibattito e alla ricerca condivisa di soluzioni per mitigare i fenomeni che affliggono i nostri cieli e le nostre terre non sarebbe poi così inutile.