Opinioni

La tragica morte di Amy Winehouse/2. No, ragazzi, l'amore non è mai «partita persa»

Riccardo Maccioni martedì 26 luglio 2011
Amy Winehouse era troppo ricca di talento per commuovere. Troppo fragile per il successo. Troppo soul per la sua vita rock. Troppo "sporca" per farsi adottare dai media. Troppo "maledetta" persino per i tabloid inglesi che sulle miserie patinate, càmpano. Troppi tatuaggi sulle sue braccia sottili. Tacchi troppo alti per camminare diritta. Troppi capelli per quella pettinatura fuori moda. E soprattutto troppi bicchieri vuoti, troppe sigarette, troppe pastiglie inutili. Come una stella espulsa da una costellazione straniera era perennemente fuori tempo. E fuori sintonia. Anche rispetto a se stessa. Non era per stupire che beveva whisky tra una canzone e l’altra. Nessun autocompiacimento di plastica nelle sue notti disperate. Il male di vivere, purtroppo, era autentico. E come nelle storie più banali e logore cercava rifugio in paradisi senza gioia. Non basta il portafogli gonfio a insegnarti la vita, e il talento, da solo, non serve a riempire il vuoto che senti dentro.A modo suo, Amy ci aveva provato a "guarire". Entrava e usciva dalle cliniche per disintossicarsi, così come era entrato nella sua esistenza Blake, sposato nel 2007. Era finita con un divorzio due anni dopo e il nome del marito tatuato sul petto, firma indelebile sull’ennesimo fallimento. «La sua morte non è stata una sorpresa – ha detto disperata la madre di Amy –. Era solo una questione di tempo». La pensano allo stesso modo i tanti fans e i pochi amici che l’hanno vista bere solitari caffè, con il trucco sfatto e lo sguardo spento, dopo un concerto annullato. Lo ripete adesso chi a Belgrado il 18 giugno ha sonoramente fischiato una Winehouse barcollante e stonata. Perché non c’è pietà per chi sputa addosso alla fortuna. Anche se sofisticata e ruvida come la sua voce. Si, se l’è andata a cercare Amy Winehouse, ha perseguito con ostinazione il modo per distruggersi. Rovesciando il titolo di un celebre film, era «nata per perdere». Malgrado i tanti zeri sul conto corrente, a dispetto degli appassionati in coda davanti alla stanza d’albergo in cui dormiva. Sono gli stessi che adesso sostano davanti alla sua casa, lasciando un fiore o, omaggio di cattivo gusto, calici di vino ancora mezzi pieni.Sì, si è autodistrutta Amy Winehouse. E anche per questo merita di avere quello che troppo poco ha trovato nella sua breve vita. Silenzio, umana pietà e, mi sia permesso, una preghiera. Perché la medicina è fatta per i malati e chi vuole aiutare sale sul carro non dei vincitori ma dei perdenti. Anche quelli travestiti da star. Love is a losing game l’amore è una partita persa, cantava la Winehouse in una delle sue più celebri canzoni. Nessuno ha saputo farle capire che non è così, che un cuore donato agli altri vince anche quando in cambio trova solo sofferenza. Soprattutto, nessuno le ha insegnato a volersi bene.Non desiderava essere un modello la cantante di «Rehab» e nel suo vocabolario non esisteva la parola «diva». Era una giovane donna triste, vinta da un tarlo che l’ha consumata giorno dopo giorno. Nella battaglia più importante le sono mancate le forze, e gli alleati. Troppi falsi amici, nella sua vita sregolata. Troppe ferite nell’anima. Troppa solitudine.