Opinioni

Ai funerali di Gallinari solo autocompiacimento. Tra quei pugni chiusi pietà l'è morta

Roberto Mussapi martedì 22 gennaio 2013
La cerimonia funebre di Prospero Gallinari, carceriere e uno degli uccisori di Aldo Moro, mai pentito, è un fatto cupo e inquietante. Il dispendio di parole come "pietà" a opera di uomini politici che non conoscono la retorica, disciplina linguistica e morale, ne è una conseguenza significativa. Si prova pietà per qualunque essere muoia. Anzi, in quel momento, come scrisse il poeta inglese John Donne poi ripreso da Hemingway, la campana che batte a morto batte per te, chiunque sia chi ha lasciato questa vita. Ma la parola pietà non ha spazio – per chi abbia un minimo rispetto per la dignità della lingua – in un incontro di reduci in cui non traspariva alcun disagio per i morti ammazzati dai terroristi rossi, alcun segno di riconoscimento della permanenza in vita dei loro familiari. Da Aldo Moro a Guido Rossa a tanti innocenti cittadini italiani uccisi per odio, con freddezza e irrisione, non scorre solo un filo di sangue e omicidi, ma di un lutto che perdura. L’orgoglio dei Curcio e dei suoi colleghi, i pugni alzati e il canto fiero dell’Internazionale, supportato dal coretto di neoestremisti, il senso di autocompiaciuta rimpatriata da reduci, nulla lascia trasparire di pietoso, o anche solo di luttuoso. Si avverte lo sprezzo del terrorista per l’uomo comune, la superbia di chi si considera salvatore del mondo e per il quale il fine giustifica letteralmente i mezzi. Certo, non si è assistito a comizi incitanti alla violenza e all’omicidio di classe, nulla di illegale è stato compiuto. Ci mancherebbe, penso immedesimandomi non nell’assassino ma nella vedova o nel figlio della sua vittima. Ma le scene, riviste, testimoniano di un clima autorefenzialmente commosso e superbo, senza attimi di turbamento, senza esitazioni: bandiera, coro, pugni alzati, manco fossero rugbisti maori prima dell’incruento e nobile incontro. Quando invece quei volti sicuri, impassibili e autocommossi evocano semmai certi summit di mafiosi, tronfi e sicuri di sé, certi di essere nel giusto. Non c’è stata istigazione, nessun gesto violento, ma la resa e la realtà teatrale dello squallido evento mettono in scena l’indiscussa fiducia nel passato di uomini uniti e cementati dall’odio, dal piacere della clandestinità, delle armi, dell’agguato, del travestimento. Come se le immagini, vere, i filmati, le fotografie, che testimoniano un decennio di delitti, di pianti disperati di parenti, di bambini privati del padre, di vedove incapaci di comprendere perché, di poliziotti e carabinieri in lotta eroica contro un male assoluto, metafisico, come se tutto questo non fosse più presente. Nessuna istigazione, certo, solo l’arroganza di chi si mostra fiero del proprio passato, che è sangue versato, di innocenti. Bella gente, questi eroici reduci: tra loro spicca certo Notarnicola, efferato bandito dell’efferata banda Cavallero, che fece strage di cittadini a Milano negli anni Sessanta. Non convertito all’estremismo di sinistra come recitavano alcuni tg, ma estremista rosso da prima, da quando scelse la vita di bandito, e poi sempre. Mentre il suo capo, il tremendo Pietro Cavallero, in carcere si pentiva e redimeva, si convertiva dedicando la sua vita all’espiazione, alla preghiera, all’aiuto al prossimo. Non mi aspettavo un Cavallero, in quel convivio di mani sporche di sangue, ma qualche volto minimamente in crisi, o un po’ di imbarazzo, di timidezza, di confusione. Di pietà. Che il morto non ha avuto: ha avuto bandiera, coro, pugni alzati, come se fosse immortale. Niente del pianto e della sottomissione che ci piegano di fronte a un fratello defunto.