Opinioni

Tra calcoli e umanità. La ripresa d’iniziativa italiana in Libia

Giorgio Ferrari giovedì 25 marzo 2021

L’annunciata visita nella prima settimana di aprile del presidente del Consiglio Draghi in Libia è altamente simbolica. Non solo perché di fatto è la prima missione internazionale del nostro premier, ma soprattutto perché pone un suggello italiano su quella Quarta Sponda che per lungo tempo ha visto il nostro Paese indeciso e talvolta contraddittorio nella selezione delle alleanze e nelle scelte compiute.

Come se la partita libica – per noi così importante e decisiva per tre essenziali motivi: l’emigrazione-immigrazione sfruttata e sregolata, il rispetto dei diritti umani e la competizione sul ricco mercato energetico – si fosse arenata di fronte ai prorompenti interessi di due potenze regionali, la Turchia e la Russia. Due player dai forti appetiti geopolitici che si sono sostanzialmente spartiti dopo un pericoloso confronto armato per interposte milizie i rispettivi territori d’influenza: la Tripolitania dal 2016 fino a poco fa retta dal governo riconosciuto dall’Onu di Fayez al-Serraj che tornava ad essere dopo oltre un secolo un protettorato di Ankara; la Cirenaica, dominata dal bellicoso generale Haftar, ora terra di conquista dei contractor russi della Wagner e zona chiave per i terminali petroliferi grazie ai quali la Libia con i suoi 63 miliardi di barili di greggio e i 15 miliardi di gas di riserve si configura come un autentico eldorado degli idrocarburi.

In Libia ora c’è un “governo tecnico” guidato dal sessantunenne imprenditore originario di Misurata Abdulhamid Dbeibah, il cui compito principale è condurre il Paese alle elezioni del 21 dicembre. Personalità politicamente vicina prima al clan Gheddafi e successivamente simpatizzante del presidente Erdogan, si è assicurato il voto semi-plebiscitario del Parlamento libico. Certamente è figura dal passato criticabile, ma è comunque con lui che la comunità internazionale deve forzatamente fare i conti.

Francia, Stati Uniti, Germania, Egitto, Grecia, Israele, per non dire di Mosca e Ankara sono tutte in corsa nella grande partita del Mediterraneo allargato. Una partita di cui la crisi libica è elemento centrale e ineludibile. Non a caso l’Italia si è mossa per tempo. Quattro giorni fa l’amministratore delegato dell’Eni De Scalzi ha avuto un faccia a faccia con Dbeibah e il nuovo ministro del Petrolio e del Gas Mohammed Oun, mentre il ministro degli Esteri Di Maio incontrava ufficialmente i nuovi esponenti del governo libico. Ora però è sceso in campo direttamente Mario Draghi.

Accompagnato da una dichiarazione che non lascia alcun dubbio sulle intenzioni del governo: «L’Italia – ha detto ieri Draghi in Senato – difende in Libia, nel Mediterraneo orientale, ma un po’ dovunque i propri interessi nazionali e la cooperazione internazionale nel campo della sicurezza con i suoi partner strategici. Se vi fossero interessi contrapposti, l’Italia non deve avere alcun dubbio a difendere i propri interessi nazionali.

Né deve avere timori reverenziali su qual che sia partner». E a proposito di partnership, va notato come dopo anni di ruvida e reciproca diffidenza Roma e Parigi si siano riallineate proprio di fronte al complicato dossier libico, sfiorando addirittura l’ipotesi di un’intensa collaborazione fra le rispettive intelligence. Quasi un’asse italo-francese in chiave mediterranea, impensabile fino a pochi mesi fa e utilissimo per ridimensionare il peso turco e russo. Miracoli della Libia, grande malato del Mare Nostrum, e forse anche di un sensibile cambio di passo nella politica estera italiana. E miracoli anche degli inevitabili appetiti che il Great Game nordafricano e mediorientale ha riacceso fra le potenze in competizione.

Per l’Italia gioca – deve giocare – anche e soprattutto il risvolto umanitario che partendo dalle coste libiche (e tunisine) è tutt’ora fonte di una prolungata e indicibile tragedia fra i profughi e migranti. E, insieme, la necessità di accompagnare la normalizzazione di un Paese che a dieci anni dalla rivolta che ha portato alla caduta di Gheddafi è tutt’altro che pacificato. È presto per dichiararsi ottimisti. E per dire definitivamente archiviata la fase cinica e ingiustificabile del fermare “a qualunque costo” (e facendo patti con chiunque, e violando ogni regola di civiltà) chi fuggiva dai lager libici per “stranieri”. Ma un barbaglio di luce si comincia a intravedere. E laddove non potrà la diplomazia, sarà forse più persuasiva – come sovente accade – la voce degli affari. Ma l’importante è un decente risultato.