Opinioni

Tutto più difficile ad Ankara e per noi. Tortuosa involuzione

Andrea Lavazza domenica 17 luglio 2016

«Un dono di Dio per fare pulizia nell’esercito». Potrebbe essere questa la frase rivelatrice di Recep Tayyip Erdogan nelle ore successive al golpe sventato che l’altra notte ha fatto tremare la Turchia (insanguinandola) e l’intera regione mediorientale. Ma è probabilmente riduttivo leggere ciò che è successo e quello che ora si preannuncia come una sequenza lineare dalla facile interpretazione, ovvero pochi militari sprovveduti, involontari complici, lasciati agire perché il presidente potesse stringere la propria presa sull’apparato statale. Troppo complesso il Paese ponte tra Europa e Asia, troppe le partite internazionali in cui è coinvolto, troppo intelligente oltre che spregiudicato Erdogan perché si possa dipingere un quadro così semplificato.

 

I vertici delle Forze armate hanno una lunga tradizione di interferenza nella politica nazionale e venerdì sera alcuni generali hanno tentato di riaffermare una tradizione kemalista di laicità autoritaria che però non trova più, come accadeva in passato, il docile consenso di truppe di leva e di cittadini poco abituati alla procedure democratiche. In piazza sono scesi, sì, i sostenitori del presidente, benedetti anche dagli imam che hanno chiamato alla mobilitazione per difendere l’esecutivo islamista moderato, ma i partiti d’opposizione si sono schierati senza esitazione contro il ricorso alla forza per rovesciare un leader certo da loro non amato. La Turchia che non brilla per rispetto delle garanzie e dei diritti ha visto crescere un’opinione pubblica poco disponibile a rientrare in una spirale in cui sopruso scaccia sopruso. Il colpo di Stato non è mai una soluzione indolore e raramente rappresenta una soluzione tout court.

 

Ciò detto, la reazione del governo non si è fatta attendere: se la cattura di ufficiali infedeli risulta inevitabile e giustificata, la rimozione e l’arresto di migliaia di magistrati, funzionari pubblici e di un giudice della Corte costituzionale appaiono quanto meno sospetti. Soprattutto perché l’obiettivo si è subito spostato dai rivoltosi con le stellette all’arcirivale di Erdogan, quel Fethullah Gülen che da "gemello" è diventato una presenza scomoda, per l’influenza che in patria esercita su molti ambienti, anche a migliaia di chilometri di distanza, dal suo esilio americano. La partita a due Erdogan-Gülen si gioca tutta in uno scontro di potere all’interno di una prospettiva islamistica che accoglie al suo interno un’idea di democrazia non coincidente (per usare un eufemismo) con quella che l’Unione Europea richiede per l’adesione. Ma la storia insegna che neppure il vecchio modello militare, qualora il colpo di Stato fosse riuscito, avrebbe garantito aperture nei confronti della libertà di espressione e di stampa, della minoranza curda e dei partiti di ispirazione socialista, i primi bersagli dell’attuale esecutivo.Nel complesso, una parte della società turca, compresa l’esigua e sempre minacciata presenza cristiana, che potrebbe vedere allargarsi i suoi spazi di manovra soltanto con un pieno dispiegamento dei processi democratici. E qui entrano in gioco le responsabilità degli alleati e dei partner di Ankara. Le forti ed esplicite condanne del golpe nelle ore in cui il suo fallimento sembrava già maturare non nascondono le spine nei rapporti con l’attuale dirigenza turca. Difficoltà che sembrano destinate ad aggravarsi di fronte a un Paese che si mostra diviso, e indebolito all’esterno, mentre sarà meno libero e più repressivo all’interno. 

 

Gli Stati Uniti difendono Gülen chiedendo prove a suo carico e ricevendo in cambio risposte sprezzanti. La Nato e la Ue, che hanno bisogno della Turchia malgrado le sue incoerenze (un altro eufemismo) sul fronte siriano e su quello della regolazione dei flussi migratori, salutano la saldezza della democrazia che ha resistito al golpe, ma non si sarebbero forse indignate più di tanto dinanzi a una transizione violenta, come è accaduto in Egitto dopo la rimozione del presidente islamista eletto, Morsi, da parte del generale al-Sisi. Situazioni diverse, certo, ma né l’una né l’altra sembrano vie ideali. Erdogan il sultano fa retate di giudici, sotto il militare al-Sisi non si riesce a fare luce sul barbaro omicidio di Giulio Regeni. Le cancellerie occidentali avevano sentore di quello che stava maturando a Istanbul e Ankara o si sono fatte sorprendere dalle tensioni improvvisamente deflagrate l’altra notte? In ogni caso, ora avranno un interlocutore ancora meno affidabile e presentabile.

 

E la loro colpa è quella di non avere provato prima, con i molti strumenti a disposizione, a indurlo a una maggiore moderazione dentro e fuori i propri confini. Il tentato colpo di Stato e il suo contraccolpo ci consegnano verosimilmente un problema in più in un momento e in una regione che sono al culmine della tensione per fattori politici e religiosi. Meno realpolitik e un supplemento di fantasia diplomatica sono quello che ora serve davanti a questa tortuosa involuzione.