Quarant’anni sono l’occasione per redigere un bilancio e, soprattutto, riflettere sulla possibile evoluzione di quella che è stata una delle leggi più importanti dell’Italia repubblicana: la 300 del 20 maggio 1970, a tutti nota come lo "Statuto dei lavoratori". Una legge di persistente vitalità per quanto riguarda i valori e le funzioni. Perché, oggi come allora, rimane centrale l’esigenza della garanzia dei diritti fondamentali della persona che lavora così come della promozione del sindacato come elemento di democrazia e bilanciamento del potere del datore di lavoro nei luoghi di lavoro. Una legge che, tuttavia, mostra tutti i suoi anni per quanto riguarda le norme di dettaglio e alcune tecniche di tutela in certa parte relative a un mondo del lavoro che non c’è più e dunque oggi inadeguate in un mercato che cambia incessantemente. È sufficiente ricordare che, negli anni Sessanta, oltre l’80% dei lavoratori erano operai della grande industria e braccianti agricoli. Un dato drasticamente ridimensionato, dall’apparire di nuovi mestieri e di nuove professioni, soprattutto nel terziario e nei servizi, che non hanno rappresentazione e tutela all’interno dello Statuto dei lavoratori. La legge 300 non trova oggi applicazione per più della metà della forza lavoro così come per i tanti inoccupati, disoccupati, atipici e irregolari nelle cui file sono intrappolati soprattutto giovani e donne.Il sindacato riformista ha parlato, ieri, della necessità di transitare rapidamente dallo "Statuto dei lavoratori" a un nuovo "Statuto dei lavori" riprendendo così l’elaborazione progettuale della riforma Biagi, ancora largamente inattuata, e il piano triennale del lavoro annunciato nei giorni scorsi dal ministro del Lavoro Maurizio Sacconi. È un percorso ineludibile, soprattutto per chi vuole preservare i valori e la funzione dello Statuto, quello di adeguare la strumentazione giuridica al nuovo mondo del lavoro per estendere le tutele a quanti, oggi come allora, risultano esclusi ed emarginati. Questo significa non la cancellazione, ma la naturale evoluzione dello Statuto, portando a maturazione il percorso riformatore avviato con la legge Treu e la riforma Biagi.La priorità rimane quella dell’inclusione, in un Paese dove solo 23 dei 60 milioni di abitanti hanno un lavoro regolare. Aumentare, come è possibile, la popolazione lavorativa di circa 4 milioni di unità significa non solo contrastare il sommerso, ma anche aumentare la produttività del Sistema Paese e la quantità di risorse pubbliche disponibili con grande vantaggio per tutti. È da qui che deve partire il processo riformatore, da una nuova alleanza tra lavoratori e imprese nella prospettiva del bene comune e della collaborazione per cambiare, in meglio e in modo pragmatico, la nostra società che vede nel mercato del lavoro ancora troppe sofferenze, ingiustizie e discriminazioni.Proprio le conquiste dello Statuto dei lavoratori rendono peraltro oggi possibile perseguire quella posizione, fatta propria dalla Cisl negli anni Sessanta, di un protagonismo del sindacato e delle relazioni industriali, in logica sussidiaria e con arretramento del rigido centralismo regolatorio dell’attore pubblico che vive solo di norme inderogabili, divieti e sanzioni e che tanto ha condizionato il funzionamento del nostro mercato del lavoro.Un moderno Statuto dei lavori richiede oggi la garanzia dei diritti fondamentali della persona che lavora. Primi tra tutti il diritto alla tutela della salute e sicurezza negli ambienti di lavoro e il diritto a un compenso equo, commisurato alla quantità ma anche alla qualità del lavoro, tale in ogni caso da garantire davvero il diritto costituzionale a una retribuzione sufficiente per mantenere se stessi e la propria famiglia. E, poi, via via, altri diritti che garantiscano al lavoratore piena occupabilità e continuità di reddito nelle sempre più frequenti transizioni occupazionali che richiedono un continuo aggiornamento professionale come vera garanzia di stabilità del lavoro.Grazie alle conquiste di quarant’anni fa, sono ora maturi i tempi per attuare il percorso riformatore tracciato dal sindacato riformista e cioè transitare verso una economia della partecipazione che presuppone e determina, al tempo stesso, un modello d’impresa sempre più attento al valore della persona e un modello di sindacato quale soggetto attivo dello sviluppo e della diffusione del benessere.