Spinta al lavoro delle donne. Tetto di cristallo via ma resti il focolare
Si fa un gran parlare, e giustamente, del prezzo pagato dalle donne sul mercato del lavoro per l’emergenza Covid. Sono state le prime a esserne espulse, vuoi per la necessità della cura familiare, i figli e gli anziani; vuoi perché già soggetti deboli del mercato del lavoro. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), con la visione nuova del Paese che obbliga ad avere, potrebbe essere una buona occasione di strutturare il mercato del lavoro in senso perequativo per le donne. E alcune misure vanno opportunamente in questo senso. Tuttavia questa perequazione non può essere una mera equiparazione al maschile.
Deve essere rispettosa, invece, dell’identità delle donne in quanto tali, deve cioè aiutare un progetto di vita delle donne che sia inclusivo, sul piano della loro autorealizzazione esistenziale, dello specifico differenziale del genere femminile: la maternità e la cura. Prestazioni sociali fondative - vero e 'materiale' cuore biologico-affettivo della stessa riproduzione generativa - della donna, queste. O non surrogabili da altri (la maternità); o solo parzialmente surrogabili o coadiuvabili dal welfare e dai compagni di vita Si tratta di un nodo che, se non affrontato, renderà velleitario ogni sforzo di welfare e ogni appello a contrastare la denatalità del Paese, ovvero – con qualche crudezza – il suo suicidio o la sua eutanasia riproduttiva.
Ci sono le ormai ben note difficoltà socio-economiche alla maternità in società dove la diffusa aspettativa è di una vita 'affluente' come individui, uomini e donne. Una vita che non vuol sentirsi impacciata da impedimenti o gravami familiari che con la 'propria' autorealizzazione esistenziale non siano compatibili (ne fa fede empirica la denatalità in società europee che, certo, non possono essere tacciate di scarsa attenzione al welfare familiare e generativo). Ma c’è anche un fatto di cultura, da rimontare nelle nostre società. Per cui sarebbe ben opportuno 'propagandare' alle nuove generazioni la famiglia e la generatività, e non i modelli di fitness estetico e sociale che le disincentivano. Ma accanto a questo, che già chiede una 'mano sulla coscienza' a ognuno di noi, c’è qualcos’altro si potrebbe fare.
E cioè immaginare azioni di welfare di sostegno differenziale al lavoro delle donne. Azioni tese a rispettare e promuovere la differenza femminile. Questo potrebbe voler dire coinvolgere maggiormente gli uomini nella cura familiare, cosa che certamente si può e di deve fare, stando attenti però che l’equiparazione non porti aziende e datori di lavoro a chiedere anche ai maschi di non avere progetti di paternità (con Eduardo De Filippo, mio maggior conterraneo, non possiamo fingere di essere tra quelli che non «sanno ’a ggente, ’o munno e ’a ’nfamità »).
Si potrebbe, inoltre, premiare economicamente, rendendola conveniente per aziende e datori di lavoro, la scelta di tenere al lavoro le donne che facciano figli garantendo loro, per esempio, per un congruo periodo parametrato alla potenziale perdita di 'produttività' della lavoratrice donna, lo sgravio degli oneri fiscali e previdenziali per quelle posizioni lavorative. Se un piano del genere fosse condiviso dalle organizzazioni datoriali sul presupposto che l’impresa ha bisogno di lavoratori e consumatori. E che se questi non nascono, alla fine si perde o si chiude lo stesso. Se questo avvenisse, sarebbe credo una buona cosa. Abbiamo bisogno, infatti, di una società dove le donne possano restare in azienda 'perequate, ma non equiparate' ai maschi. Abbiamo bisogno di smontare il famigerato 'tetto di cristallo' che esclude le donne dalla piena valorizzazione di tutti i loro talenti, senza però chiudere il focolare.