Asia Bibi, 42 anni, madre di due figli, sta per compiere 1.500 giorni di carcere. Quasi l’ottava parte della sua vita. E mentre ciò avviene, a più di 4 anni dall’arresto e a più di 3 anni dalla condanna a morte in base alla legge del Pakistan sulla blasfemia, una serie di fatti drammatici viene a ricordarci in quali condizioni debbano vivere milioni di cristiani in vaste regioni dell’Asia. Nello stesso Pakistan (e nella stessa provincia del Punjab di cui è originaria Asia Bibi), un ragazzo è stato condannato all’ergastolo, di nuovo in base alla legge sulla blasfemia. Sajjad Masih avrebbe mandato una serie di messaggi insultanti per l’islam dal cellulare di una ragazza che non aveva accettato di prenderlo in sposo. In India, nello Stato dell’Orissa, un pastore protestante è stato ucciso e la sua morte, con la complicità della polizia locale, fatta passare per incidente. Ancora in India, nel Tamil Nadu, una giovane suora è stata rapita, tenuta prigioniera per una settimana e ripetutamente violentata da un gruppo di uomini musulmani, tra i quali alcuni parenti.
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Sono vicende intricate, divise dalla geografia e complicate da dinamiche di gruppo e di clan non sempre facili da decifrare. Ma non facciamoci ingannare. Intanto, questi episodi si ripetono con una frequenza che cancella ogni dubbio. È ancora fresco il ricordo, per restare al Pakistan, di Rimsha Masih, l’adolescente che l’anno scorso fu arrestata con la solita accusa di blasfemia e falsamente accusata di aver bruciato pagine del Corano. Era il lurido complotto di un imam che voleva in quel modo impadronirsi di una proprietà della famiglia Masih. L’imam è finito in prigione, ma la famiglia di Rimsha ha dovuto trasferirsi addirittura in Canada per poter vivere in pace. E in India stanno per scoccare i cinque anni dai tumulti in cui gli estremisti hindu uccisero decine di cristiani e diedero fuoco a centinaia di loro case e chiese.
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C’è un filo rosso che tiene insieme queste tragedie, e si chiama cristianesimo. Queste persone vengono accusate, picchiate o uccise non per ciò che fanno, ma per ciò che sono. La legge sulla blasfemia del Pakistan, come le ricorrenti accuse per le conversioni al cristianesimo in Orissa, che mettono in crisi non la fede degli hindu ma il lucroso sistema delle caste, sono solo strumenti, arnesi per colpire. Questi o altri non farebbero differenza, perché l’elemento decisivo è il livello di accettabilità sociale di cui la persecuzione dei cristiani è circondata. Aggredirli è lecito, anzi: è un auspicabile segno di fedeltà alla comunità di appartenenza. Lo dimostrano le complicità che sempre circondano questi casi, la malafede delle autorità, il culto della violenza contro chi è 'altro' dalla maggioranza che spira dalle parole di fin troppi esponenti religiosi.
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Non sono situazioni senza speranza, anche la causa della tolleranza ha avuto le sue pagine luminose e i suoi martiri. Lo Stato dell’Orissa fu il primo in India ad approvare, fin dal 1967, una Legge sulla libertà di culto moderna e avanzata. La causa di Asia Bibi, in Pakistan, è costata la vita a Shabhaz Batti, ministro (cattolico) per le minoranze, e a Salmaan Taseer, governatore (musulmano) dello Stato del Punjab. Le testimonianze dunque non sono mancate. Sono i fatti che mancano, i provvedimenti, le azioni concrete. È questa la sfida su cui impegnare i fin troppi governi che latitano (sino alla complicità coi persecutori) al momento di garantire i normali diritti civili e la giusta protezione alle minoranze etniche o religiose che vivono sotto la loro giurisdizione. Almeno finché la politica internazionale non sarà ridotta a mero sinonimo di commercio e i rapporti tra i popoli gestiti come una qualunque partita doppia.