Alla cassa una vecchia signora mette via una spesa frugale e si sfoga con la giovane cassiera: «Con la pensione che ho, non sarà un gran Natale...» La ragazza avrà vent’anni, sorride a quella che potrebbe essere sua nonna, ma non si trattiene da una battuta amara: «Si contenti, signora, che almeno lei una pensione ce l’ha. Io, non so; anzi, non so neanche se fra sei mesi avrò un lavoro».
La vecchia signora se ne va con la sua sporta, la commessa batte la spesa del prossimo cliente, ma non sorride più. C’è un retrogusto agro in questa vigilia nelle parole della gente, c’è un malessere che ti indurrebbe a cambiare canale, quando c’è il tg. E non è solo per la crisi, per i tagli, i sacrifici. È qualcosa oltre: è, nello scoprirsi più poveri, come la tentazione di porsi sistematicamente gli uni contro gli altri. È un protestare collettivo ma frammentato in tante parti quanti, si direbbe, sono gli interessi. Insorge chi era al traguardo della pensione, insorgono certi sindaci che invitano a non pagare l’Imu, insorgono, naturalmente, i sindacati, in difesa di un lavoro che va 'garantito'; ma a maggior ragione potrebbero insorgere quei giovani che nel precariato rischiano di invecchiare. Chi minaccia serrate, chi sciopera a pochi giorni da Natale bloccando le città. Legittimo; ma inquieta la sensazione che si possa arrivare a essere tutti contro tutti, anziché tutti insieme, in un frangente tanto grave. La stessa più che condivisibile ansia di far pagare le tasse agli evasori o di contenere i costi della politica rischia una deriva populista se si risolve in un additare ogni giorno presunti nuovi avversari – che vengano smascherati, che paghino, finalmente, si sente dire con rabbia; o se sfocia in una costruzione di nemici immaginari, come si è cercato di fare con la truffaldina campagna contro la Chiesa a proposito di Ici.
E forse è più, all’origine, mediatica che reale questa tensione; ma è uno di quei casi in cui i media, più che rappresentare, possono 'fare' la realtà, forgiarla nella forma di una contrapposizione metodica e radicale, senza prospettive.
Così che un viaggiatore che si trovi in questi giorni a girare per l’Italia potrebbe trarne l’impressione non di un Paese in lotta con la crisi, ma in lotta intestina con se stesso. Più che un popolo, un coacervo di corporazioni, categorie, bande in contrasto fra loro. E verrebbe da domandare, a ogni nuovo alzarsi di striscioni: avete magari ragione, ma non vi accorgete, nella difesa del vostro particolare, che in pericolo c’è qualcosa di più grande? Che l’euro tenga, che il sistema bancario tenga, che lo Stato possa pagare i suoi debiti e garantire i suoi servizi; che i figli possano sperare di avere un lavoro, una casa, dei figli, tutto questo non è un bene ancora più grande del proprio pure legittimo interesse personale? Certo, nell’ombra c’è, lo sappiamo, un’Italia solidale che non fa rumore, che prosegue a testa bassa contro il vento contrario, che tende una mano a chi resta indietro. Ma è come se questo capitale di unità e solidarietà restasse non riconosciuto, persino sotto accusa, comunque in disparte, mentre gli altri lottano ciascuno, chiassosamente, per sé. Siamo un popolo, o solo milioni di persone che vivono negli stessi confini? È diverso, come in una casa è diverso essere una famiglia o quattro o cinque uomini e donne che si incrociano frettolosamente, la sera.
È perché siamo cresciuti nell’individualismo, nel mito dell’autonomia e della realizzazione di sé, che davanti alla crisi ci ritroviamo così frammentati? O, forse, è perché molti adulti oggi non sono padri né madri, e questo non pensare a chi verrà accorcia, rende miope lo sguardo? Fosse, questo Natale che arriva tuttavia puntuale, l’ora della memoria di un Paese di grande tradizione cristiana, in cui carità e solidarietà si facevano senza nemmeno nominarle,
naturaliter, perché così si era visto fare dai vecchi. Fosse, questo Natale, l’ora per ritrovarci e riscoprirci - prima che rivali, controparti, avversari - un popolo, che vuole continuare la sua storia.