Legge 194. È tempo di far germogliare spirito solidale nelle norme
Maggio è passato, tempo di ricordi amari: 44 anni fa l’assassinio di Aldo Moro, il punto più buio della notte della Repubblica. Per il popolo della Vita, quasi negli stessi giorni, il dolore della legge di aborto; e quattro anni dopo il referendum della sconfitta. Io ricordo, e ancora sento la ferita. Che cosa voleva quella legge, quali pronostici di vite uccise prenotava in futuro? Ogni legge è fatta di parole, che ne disegnano il corpo e i comandi; ma ogni legge ha uno spirito, che ne dice la genesi e il fine. E ciò il suo intento sparge intorno, nella vita concreta. Rammentando l’opera che Montesquieu intitolò De l’esprit des lois, ne trascrissi un epifonema fulminante: «Vi sono due sventure per una nazione: una, quando il popolo non osserva la legge; due, quando la legge corrompe il popolo. Sventura questa peggiore, perché deriva da ciò che deve esser rimedio e diviene veleno». Così mi parve. Ma al referendum due elettori su tre votarono per tenersela, quella legge-veleno. Ciò che i pro-life riprovavano come licenza di uccidere, in una legge «totalmente iniqua», la militanza abortista rivendicava come emancipazione, liberazione, diritto. E che cosa contenesse la legge nel suo spirito, proprio per l’effetto congiunto dell’esaltazione e dell’esecrazione del medesimo oggetto interpretato, prese la piega storica della lettura peggiore. Accade così, per lo spirito delle leggi che ricevono dagli interpreti inni e maledizioni, attinti alle opposte dottrine. Lo dico in generale: chi vuol estrarre da una legge grigia un diritto nero può giovarsi paradossalmente dell’accusa che viene rovesciata sulla legge grigia d’essere totalmente nera. Come a dire: «Se lo dite voi che il senso della legge è questa malvagia licenza, allora lasciatecela fare in pace, perché la legge vuole così, e voi siete fuorilegge».
Ma dopo quasi mezzo secolo, rileggendo la 194 come fosse un graffito, e comparandola all’esperienza dell’Italia e del mondo, è tempo di dire agli abortisti che la loro lettura della legge è fuorilegge. Non se ne può più che l’offerta di aiuto alle madri in difficoltà suoni offesa e intrusione in un 'diritto all’aborto' che la legge favorirebbe. Questo favor aborti non esiste. Cessando le sordità reciproche è tempo di cambiare musica, e ritrovare sullo spartito originale la chiave che sta in cima, a dar suono alle note. Non è un primato all’aborto la chiave che dice «lo Stato tutela la vita umana dall’inizio » (art. 1). E il primo tema precettivo della sinfonia è «far superare le cause che potrebbero indurre » all’aborto (art. 2). Nell’aiuto alla maternità difficile si include il volontariato; si sviluppano «interventi di sostegno» affidati a enti locali (art. 5). E al nocciolo l’interprete onesto, richiesto di dare lettura onesta al presupposto del «serio pericolo per la salute», non lo identifica con il libitum. Insomma, l’aborto non è un diritto; tant’è che fuori dai binari resta un delitto (art.18 e 19). Sui binari corre la morte, e ciò resta inaccettabile; ma a evitare i deragliamenti peggiori prodotti dal caos etico della vulgata abortista che si reputa spalleggiata dalla legge (paradossalmente rincalzata proprio da quei pro-life che pensano che la legge voglia proprio e solo la spinta malvagia) è necessario disseppellire gli elementi di tutela dimenticati. Ci sono incoerenze dentro la legge 194: da un lato i buoni proclami, gli intenti d’aiuto, i programmi e le promesse; dall’altro l’applicazione che non corrisponde affatto alla tutela della vita. Ma dire che i princìpi sono bugiardi e fumo negli occhi è cedere la bandiera al male, in luogo di esigere che l’applicazione diventi almeno conforme a quei princìpi, che contano di più. È sbagliato deridere i princìpi. Se per esempio leggete nella Costituzione che «la Repubblica tutela il paesaggio» non accusate i Padri d’averci mentito perché le coste del mare ora sono cementificate; il male non è nel precetto, ma nell’offesa al precetto. E se fanno scandalo le infinite ingiustizie che ancora fanno grama la vita di molti, non imprecate d’ipocrisia l’art. 3 della Costituzione che proclama l’eguaglianza e impone alla Repubblica di rimuovere le cause che la impediscono. Non dite bugiarda la rivoluzione promessa; dite piuttosto che le ingiustizie sono il segno di una rivoluzione tradita.
Così per la vita, per la tutela proclamata, per il soccorso promesso, per i tradimenti che la cultura abortista ha fatto divenire costume, per la supplenza che un volontariato generoso si è caricato in cuore, è tempo di rintracciare sotto le incrostazioni d’una cattiva storia la sinopia di un affresco diverso. E se ci riesce, far germogliare uno 'spirito della legge' diverso, col seme delle sue parole-chiave a lungo sepolte.
Già alcuni propositi, convenzioni con ospedali, rapporti con pubblici poteri stanno dando frutto. Aiutare la vita può chiedere di ficcare le unghie negli interstizi della storia pur quando è avversa. Non basterà a sconfiggere la morte, ma potrà risvegliare dentro l’ambiguità delle leggi annerite la forza delle parole d’origine che dicono protezione per la maternità, figlio e madre, aiuto alla vita; vita come bene da salvare in primis; aborto come sconfitta che non si è riusciti a scongiurare. Resta ancora un disvalore, una ingiustizia tragica; ma almeno lo spirito della legge non è quello che gli abortisti si sono inventati.
Giurista e magistrato