Opinioni

Le fitte polemiche sul ruolo delle parti sociali. Tempo di decidere, ma il dialogo aiuta

Francesco Riccardi sabato 29 marzo 2014
È stata sufficiente una frase del Governatore della Banca d’Italia sui lacci e lacciuoli, sulle «rigidità legislative, burocratiche, corporative, imprenditoriali e sindacali» che sono «sempre la remora principale allo sviluppo del nostro Paese», per accendere una polemica al calor bianco. «Parole a vanvera, che alimentano il populismo», ha subito replicato il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, seguito a ruota dalle reazioni altrettanto critiche e piccate di Susanna Camusso (Cgil) e Luigi Angeletti (Uil).La presa di posizione – in realtà una chiamata in correità con le altre parti sociali e il potere politico – non avrebbe suscitato una reazione così veemente se non fosse giunta, com’è avvenuto, al culmine di un mese di tensioni con il governo Renzi. O meglio: di critiche di una parte del sindacato, segnatamente la Cgil, alle quali l’esecutivo ha reagito rivendicando il proprio potere decisionale, la volontà di non farsi condizionare dai veti altrui e la più completa autosufficienza nel conoscere sia "cosa" occorra per far ripartire economia e occupazione, sia "come" realizzarlo, senza la necessità di neppure consultare le parti sociali. Arrivando di fatto a teorizzare non la fine della concertazione – esperienza di per sé già conclusa da un decennio – ma la scomparsa pure del dialogo sociale, ritenuto inutile quando non dannoso.La scelta del premier Renzi di non incontrare i sindacati (e gli imprenditori e le altre categorie) è significativo in tal senso. Così come lo sono le parole di ieri, con le quali il presidente del Consiglio ha rivendicato che «il taglio Irpef è una quattordicesima: non è mai successo prima, non c’è mai stato un contratto o un accordo sindacale che ha dato così tanti soldi in busta paga». Volendo così rimarcare che lui e il suo governo – non i sindacati, non gli industriali – sono i reali difensori degli interessi dei lavoratori. E che l’esecutivo sa benissimo che cosa deve fare e come: perciò il decreto lavoro si può discutere, ma non toccare. Un segnale esplicito al sindacato e allo stesso Pd, come Renzi ha sottolineato sempre ieri, con altrettanta forza, davanti alla direzione del partito. Il confine tra quel po’ di "decisionismo" che è necessario per governare bene e la "rottamazione" di ogni forma di confronto può apparire piuttosto stretto. Così come molte possono apparire le analogie di metodo tra il premier di oggi e il primo Silvio Berlusconi, quello delle svolte avviate a spron battuto, anche sopra la testa del sindacato... e però finite poi in buona parte nel cassetto dopo una stagione di sanguinosi scontri sociali scatenati dalla rabbiosa opposizione della Cgil (di cui restò vittima pure la Cisl più dialogante).In realtà, la strategia di Renzi è più raffinata e mira a riconquistare alla politica in generale, al Pd e a lui stesso in particolare, quel primato della rappresentanza popolare che il sindacato, le associazioni d’impresa, il terzo settore hanno finito per conquistare a mano a mano che scemava la credibilità dei politici e delle istituzioni dagli anni di Tangentopoli in poi. Una strategia resa più praticabile dagli oggettivi ritardi, prima di tutto culturali, in cui si dibatte il sindacato, seppure con diverse gradazioni (con la Cisl ad esempio attestata da sempre sul riformismo partecipativo, anche a costo di pagare dei prezzi; la Cgil e la Confindustria troppo spesso inchiodate, invece, sulla tradizionale linea di separazione conflittuale). Generalizzare è sbagliato, ma certo il sindacato ha scoperto solo da poco il lavoro non dipendente, che non rappresenta se non in minimissima parte; è incapace di dare voce e spazio ai giovani mentre è molto attivo nella difesa dei pensionati; è sembrato spesso tutelare gli occupati e spendersi poco per i disoccupati; ha protetto le inefficienze del Pubblico impiego e sterilizzato i tentativi di premiare i veri meriti nel servizio ai cittadini; disconosce la soggettualità della famiglia; ha un’organizzazione elefantiaca e non è immune da privilegi anacronistici e contraddizioni (come quelle sul Cnel che illustriamo a pagina 8), necessita di maggiore trasparenza. Condivide, però, questi ritardi e non solo, con altre componenti della società, partiti in primis e banche non certo di meno. E allora addossare ai soli sindacati l’intera responsabilità di frenare lo sviluppo del Paese, disconoscendone nel contempo il contributo, sarebbe ingeneroso e ingiusto. Così come del tutto sbagliato è marginalizzarne il ruolo, anziché valorizzarlo pur nelle differenti responsabilità. Abbiamo bisogno, sì, di una politica credibile, dinamica, capace di guidare il cambiamento come Matteo Renzi si propone. Ma non di meno di corpi intermedi moderni, rinnovati, che assicurino, in chiave sussidiaria, quella spinta sociale positiva senza la quale nessun cambiamento può germogliare e radicarsi.