Rieccoli quelli che “i vescovi no”. Quelli, cioè, sempre pronti a intimare il silenzio alla Chiesa e ai suoi pastori quando dicono parole che suonano incalzanti o scomode o rivelatrici (o tutte queste cose insieme) per le coscienze.
Rieccoli quelli che i vescovi (e i sacerdoti, in generale) vanno bene solo quando li si può raccontare come benedicenti un qualche gagliardetto (nero, rosso o di qualunque altro colore) oppure quando si lasciano ricoprire dalle contumelie più volgari “perché tanto non querelano”.
Rieccoli. Scatenati dal fatto che monsignor
Nunzio Galantino, vescovo e segretario generale della Cei, abbia confermato, con esempi comprensibili a tutti (le normative sull’aborto, cioè sulla soppressione di una vita nascente), che è tutt’altro che bislacca l’idea per cui ciò che è
legale (una legge, una sentenza, un’azione…) non è sempre e necessariamente
morale. Idea antica e solida, sollevata – prima della sottolineatura del vescovo – praticamente solo
sulle pagine di questo giornale a commento dell’assoluzione definitiva di
Silvio Berlusconi nell’incresciosa vicenda giudiziaria nota come “processo Ruby”. Idea taciuta da molti altri perché non condivisa, temuta o addirittura esecrata: la morale per quelli per cui non esistono il bene e il male (e perciò nessun diritto fondamentale precede le regole delle società umane) coincide totalmente con le conseguenze della legge a cui si punta e che, di volta in volta, si riesce a ottenere, fissando la nuova e più avanzata misura del giusto e dell’ingiusto...
Scatenati, sì, per diversi motivi. In una certa destra, magari, ci si è sentiti punti sul vivo per aver marciato non solo idealmente, e piuttosto indecorosamente, sotto mutande alzate come bandiere e aver votato in massa nel Parlamento della Repubblica che Ruby Rubacuori, al secolo Karima el-Marough, era credibilmente «nipote di Mubarak». In una ben nota sinistra giustizialista è scattato il risentito bisogno di recuperare uno sgabello da cui alzare fuori tempo e fuori luogo il ditino della “diversità morale”, magari, perché incapaci di trovare voci e argomenti credibili – pena entrare in contraddizioni con se stessi – per valutare eticamente i gravi fatti che i giudici, dopo tre gradi di giudizio, non erano riusciti a catalogare come “reati”.
E qui devo fare un passo indietro. Non scrivo mai di me stesso. E naturalmente non lo farò neanche in questa occasione. Ma stavolta devo dire qualcosa del mio mestiere. Che in questa fase della mia vita professionale è quello di direttore di “Avvenire”, cioè del giornale di ispirazione cattolica. E al direttore di “Avvenire” quasi tutti i colleghi commentatori hanno riconosciuto il diritto-dovere di esprimere – come ogni altro portatore sano di opinioni – un parere su fatti al centro della cronaca. Compresa, appunto, l’assoluzione definitiva – in uno dei processi più clamorosi tra quelli che lo hanno riguardato e lo riguardano – dell’uomo politico che ha impresso un segno indelebile sull’Italia della cosiddetta Seconda Repubblica. E meno male che questa libertà non è stata messa davvero in discussione. Perché altrimenti toccherebbe loro la stessa “missione impossibile” che spetta a un sussiegoso manipolo di altri colleghi: spiegare perché mai chi scrive sul giornale nazionale cattolico – o, come si dice spesso, sul “giornale dei vescovi” – dovrebbe essere meno libero di chi scrive sui giornali dei banchieri, dei finanzieri, dei costruttori, dei petrolieri, dell’industria nazionale e multinazionale o su giornali che affermano una propria ideologia di riferimento... A questo stesso manipolo di liberi pensatori anticattolici, che preferirebbero che il giornalismo di “Avvenire” fosse un giornalismo minore perché strutturalmente “a parola limitata”, ricordo volentieri – e con vera gratitudine per i nostri predecessori – che questo quotidiano è l’erede e il continuatore dei due grandi giornali cattolici – “L’Italia” e “L’Avvenire d’Italia” – che, dopo la guerra civile e di resistenza, mentre quasi tutta la stampa italiana era costretta a cambiare testata per il fatto di essersi inchinata ai nazifascisti fiancheggiandoli anche con entusiasmo, poterono invece tornare in edicola con la testata di sempre. Perché entrambi quei giornali – e i giornalisti che li facevano e il mondo cattolico che li sosteneva e che essi esprimevano – piuttosto che piegare la schiena e aprire le pagine a notizie e proclami che secondo la “norma” vigente erano in quel momento legali – una legalità che considerava “banditi” i partigiani – ma che risultavano sul piano
morale insostenibili,
avevano deciso di informare il più possibile controcorrente, scegliendo in autonomia titoli, toni e notizie. E ogni volta che questo, per atti di imposizione violenta, diventava impossibile preferivano non andare in edicola.
Meglio un silenzio eloquente, che una parola serva (che non è sinonimo di responsabile) o compiacente (che non equivale al libero apprezzamento). Non siamo cambiati. E le collezioni di 46 anni di quotidiana informazione e di civile opinione di “Avvenire” sono lì a testimoniarlo.
Ma ciò che, quasi da tutti, è bene o male riconosciuto ad “Avvenire”, secondo alcuni non sarebbe possibile a un vescovo. E in particolare non sarebbe lecito al segretario generale della Cei. In diversi, come ho ricordato, si sono esercitati in questa liberticida teorizzazione, basata sull’idea che i pastori della Chiesa siano cittadini di “serie B” e, comunque, sulla pretesa di rinchiuderli in un cliché di comodo e condannarli al silenzio. In modo diverso (anche per il linguaggio usato) e su sponde opposte (quanto a storia personale e politica), si sono distinti per la veemenza ingiusta dell’attacco a monsignor Galantino un opinionista (ed ex parlamentare Pdl) che si chiama Renato Farina e un vignettista che si chiama Vauro (Senesi).
Farina poco più di cinque anni fa fece esattamente lo stesso con il predecessore di Galantino, monsignor Crociata, personalizzando una polemica insensata. E dopo due giorni si scusò. L’uomo è capace di grandi errori e di seri ripensamenti. Per di più, a differenza del suo leader politico di riferimento, sa ammettere gli sbagli (condizione, nella Chiesa di oggi e di sempre, per quella misericordia capace di accompagnare ognuno di noi sulla via del perdono che non è da secoli sbandierato commercio di compiacenze e d’indulgenze, ma buon cambiamento di verso alle proprie azioni).
Vauro, invece, è – si sa – un acclamato disegnatore satirico. E dunque è infallibile, come il Papa quando parla
ex cathedra, e intoccabile, come i re d’un tempo. Per più d’uno lo è anche quando ricicla trivialmente barzellette dell’Italia frontista contro i preti. Stavolta gli è venuto da ghignare acido, spersonalizzando l’invettiva e generalizzandola con ferocia, davanti a vescovi e sacerdoti che hanno la statura spirituale e umana che quelli come lui non sanno vedere e le parole che quelli come lui hanno perso.
Ma ritrovare occhi onesti non è impossibile per nessuno, mai. Solo così le parole giuste (e la misura) torneranno.