Nel lessico politico israeliano c’è un collaudato cambio di scena nel quale la retorica e le astuzie diplomatiche lasciano il posto ai tamburi di guerra. Il momento-chiave di solito è il riferimento alla Shoah. E’ accaduto nel 2006 con la risposta militare ordinata dal premier Olmert all’incursione di Hezbollah in territorio israeliano e la successiva operazione militare in Libano, è accaduto di nuovo nel 2008 all’alba dell’operazione
Piombo Fuso contro Hamas a Gaza, riaccade oggi, allorché davanti alla platea dell’Aipac (la più influente lobby filo-israeliana degli Stati Uniti) il premier Benjamin Netanyahu ha fatto riferimento alle responsabilità che gli alleati si assunsero nel 1944 rifiutandosi di bombardare il campo di sterminio di Auschwitz nonostante le suppliche del Congresso ebraico mondiale. Un più che esplicito riferimento al pericolo rappresentato dalla centrale nucleare iraniana di Natanz, fulcro delle preoccupazioni del governo israeliano, che ha fatto dire al premier: «Nessuno di noi può permettersi di aspettare ancora a lungo». Fuor di metafora, Netanyahu sta preparandosi alla guerra, nonostante un’opinione pubblica che all’81% è contraria a un attacco solitario da parte di Israele e al 60% disapproverebbe anche un’azione congiunta con gli americani. Indubitabilmente il dossier Iran è la mina vagante che maggiormente insidia non solo l’equilibrio dello scacchiere mediorientale, ma anche il futuro del mercato delle materie prime e – sono in molti a Washington a pensarlo – la permanenza stessa di Obama alla Casa Bianca. Secondo Mark Fitzpatrick dell’
International Institute for Strategic Studies (Iiss) di Londra, «sul piano strategico l’Iran ha scarse possibilità di un’efficace ritorsione nei confronti di Israele, nonostante l’arsenale di missili Shahab-3, Sejil-2 e Ghadr-1». Ma sempre da Londra rimbalza un’allarmante informativa dell’MI6, il controspionaggio militare, in base alla quale Teheran punterebbe a munirsi di missili intercontinentali, in grado di colpire qualunque città europea, Gran Bretagna compresa, che dista 4.400 chilometri dall’Iran. Quanto alle materie prime, da sempre gli analisti internazionali fanno riferimento allo chock petrolifero innescato dalla guerra dello Yom Kippur del 1973 e dalla caduta dello Scià nel 1979, che vide i prezzi del greggio schizzare drammaticamente verso l’alto, ma questa volta le previsioni non si limitano a un brusco rialzo (ieri a New York il barile valeva 105 dollari e il Brent 122,5), bensì a un inimmaginabile fixing di 440 dollari: insostenibile per qualunque economia, anche la più ricca. Analoghe previsioni fanno i trader di metalli pregiati, ma forse la più esplicita è quella del seguitissimo
Gloom Boom & Doom Report dello svizzero Marc Faber, che nella sua newsletter definisce il rischio di guerra fra Israele e Iran «
almost inevitable» (pressoché inevitabile) e ai suoi clienti invia una graziosa 'cartolina' elettronica con un dipinto che raffigura una danza macabra. Si danza, come s’intuisce, sull’orlo di un vulcano. Obama – che teme un verticale calo di popolarità in caso di guerra – preme per una soluzione diplomatica, pur riconoscendo che un Iran dotato di armamento nucleare sarebbe un pericolo intollerabile per la sicurezza di Israele, cui Washington riconferma «tutto il sostegno necessario affinché mantenga la sua superiorità militare». Ma davvero un attacco è inevitabile? In realtà no. Sono in molti a ritenere che Teheran stia alzando temerariamente la posta (ora minacciando il blocco dello Stretto di Hormuz, da cui transita il 35% del petrolio mondiale, ora mandando naviglio da guerra nel Mediterraneo) per meglio negoziare la propria rinuncia al programma nucleare militare. In palio ci potrebbe essere l’ingresso dell’Iran nel Wto e la restituzione dei beni congelati agli ayatollah dopo la vicenda degli ostaggi americani nel 1979 (almeno 10 miliardi di dollari), ma soprattutto la revoca delle sanzioni internazionali, che hanno fatto del regime iraniano una sorta di grande Cuba, isolata dai rapporti con l’Occidente (e quindi dalla modernizzazione) anche se ricca di giacimenti petroliferi. Per ora si combatte ancora una guerra di nervi. L’importante è continuare ad averli saldi.