Reportage. Taiwan si fida ancora della Cina e non teme una deriva ucraina
Cittadini di Taipei protestano contro le restrizioni anti-Covid imposte dalla Cina. Esposta anche una bandiera per la pace con i colori ucraini
A poco più di un anno dal suo inizio, l’invasione russa riverbera con sempre maggiore intensità a Taiwan, dove alimenta un’ondata di interrogativi e un’incessante introspezione. Come l’Ucraina si è trovata ad affrontare un vicino molto più grande e potente con il quale ha profondi legami culturali e storici e che cerca di assorbirla, così Taiwan teme di dover affrontare la Cina, che rivendica l’isola come propria. Se dovesse scoppiare una guerra, si chiedono i taiwanesi, sarebbero coraggiosi come gli ucraini? Avrebbero la stessa feroce determinazione degli ucraini nel difendere la propria identità nazionale o le loro origini cinesi li spingerebbero a evitare a tutti i costi uno spargimento di sangue? L’ambivalenza e i dubbi si respirano nelle università, nelle sedi dei partiti, sui media, ai vertici delle aziende e persino del governo. Ovunque la fedeltà ai valori democratici e liberali – giustapposti a una Cina sempre più autoritaria – si mescolano a una pervasiva propaganda e disinformazione cinese che spinge verso una progressiva e pacifica annessione dell’isola ribelle.
È una miscela che ha origini lontane. Il nome ufficiale di Taiwan è ancora Repubblica di Cina a Taiwan. Le bandiere che sventolano su Taipei rappresentano il sole bianco su sfondo blu e rosso. È un’eredità peculiare della guerra civile cinese. Nel 1949 il regime nazionalista sconfitto di Chiang Kai-shek fuggì attraverso lo stretto di Taiwan verso Taipei. Chiang portò con sé più di un milione di cinesi su un’isola con una popolazione di sei milioni, molti dei quali avevano già origini etniche cinesi. Il suo movimento politico, il Kuomintang, ha dominato Taiwan per più di quarant’anni, durante i quali ai bambini taiwanesi veniva insegnato che erano cinesi, che la loro vera patria era al di là dell’acqua e che il regime nazionalista rappresentava «il vero governo democratico, della Cina libera». Oggi queste definizioni a tanti taiwanesi, specialmente giovani, appaiono assurde. I sondaggi di fine 2022 mostrano che il 65% degli abitanti dell’isola si considera “taiwanese”, mentre dieci anni fa circa la metà della popolazione diceva ancora di essere “cinese”.
Ma se si scava nel significato dell’identità taiwanese, le cose si complicano. « Essere taiwanesi significa avere una vita basata a Taiwan», dice Yi-Chi Chen, presidente del Taiwan Statebuilding party, partito progressista che caldeggia l’indipendenza formale dell’isola. « Essere taiwanesi significa amare questa terra, come gli immigrati dalla Cina di lunga data, gli indigeni e gli immigrati recenti da vari Paesi asiatici», spiega il regista Toon Wang. « Essere taiwanesi significa essere impegnati a sostenere la democrazia», è la versione di Fei-fan Lin, vice segretario generale del Democratic Progressive Party, il partito al potere. « I taiwanesi sono cinesi che vivono a Taiwan», insiste invece il portavoce del Kuomintang.
L’identità taiwanese è chiaramente in evoluzione. Taiwan ha avuto una cultura distinta dalla Cina ancora prima di essere ceduta dalla dinastia Qing al Giappone nel 1895. Mezzo secolo di colonialismo giapponese ha lasciato il segno, così come la successiva brutale (e riuscita solo a metà) cinesizzazione forzata del leader nazionalista Chiang che ha tolto alle popolazioni indigene il diritto di possedere terra. L’avvento della democrazia, nel 1996, e il suo radicamento da allora, ha approfondito le differenze con la terraferma. Ma se quasi nessuno si identifica completamente con la Cina continentale, i taiwanesi sono orgogliosi di comprenderla, sicuramente meglio di quanto non faccia l’Occidente. Per questo la maggior parte è convinta che non è possibile che il leader cinese, Xi Jinping, ordini un’invasione. Vedono una tale mossa non solo come fratricida, ma anche come illogica, dati i profondi legami economici fra le due sponde dello Stretto.
E, sorprendentemente, la generazione di TikTok sta sviluppando una certa affinità culturale per la Cina, in particolare attraverso una diffusione senza precedenti del mandarino (la lingua ufficiale dell’isola, ma che compete con diverse lingue minoritarie) e la loro apertura indiscriminata alle influenze della cultura popolare cinese, che i giovani non considerano un pericolo per la loro libertà, anche se praticamente ogni post dei media sociali e ogni notizia che viene dalla Cina è progettata per convincere il popolo taiwanese che scivolare nell’abbraccio di Pechino è la cosa più naturale e conveniente da fare. Dato il forte controllo cinese sui media, la convinzione di molti giovani di poter diffondere la democrazia e i diritti umani in Cina per contagio appare illusoria. « Il contrario è più probabile», conferma Huang Yu-Lin, presidente della Taiwan Foundation for De mocracy. Intanto, la Cina continua a isolare Taiwan. Solo quattordici Paesi hanno relazioni diplomatiche con Taiwan, molti dei quali nazioni insulari come Tuvalu. Sotto la pressione cinese, Taiwan è stata esclusa dall’Assemblea generale dell’Onu e dall’adesione formale alla maggior parte delle istituzioni internazionali, inclusa l’Organizzazione mondiale della sanità. Persino i leader di Taiwan sono stranamente ambivalenti. Quando i cinesi hanno testato i missili balistic i, la presidente Tsai Ing-wen non ha detto al pubblico che avevano sorvolato l’isola, sono stati i leader giapponesi a rivelarlo.
Nei sondaggi, la prospettiva dell’unificazione generalmente raccoglie meno del 10% di sostegno. Ma molti taiwanesi, in particolare più anziani, credono che la via più sensata nel rapporto con la Cina sia quella di non irritarla o provocarla, per evitare che Xi concluda di non avere altra scelta che la guerra. Poi c’è la comunità imprenditoriale taiwanese, il gruppo più potente che preme per legami più stretti con Pechino. Dagli anni Ottanta, Taiwan ha investito decine di miliardi di dollari in Cina e migliaia di aziende vi hanno aperto filiali. Tra queste giganti come Foxconn, le cui fabbriche sulla terraferma assemblano milioni di cellulari all’anno. Più di duecentomila taiwanesi vivono in Cina, molti dei quali impiegati in società tecnologiche. E molti uomini d’affari con operazioni in Cina sono vicini al Kuomintang e hanno una visione più positiva della Cina, tanto che alcuni sono sospettati di collaborare con la disinformazione cinese. Il miliardario Tsai Engmeng, per esempio, ha acquistato diversi media taiwanesi, tra cui il quotidiano China Times e CTi TV, che hanno netta inclinazione filo-cinese e hanno ricevuto più di mezzo miliardo di dollari di sussidi dal governo cinese.
Tra Cina e Stati Uniti i rapporti sono sempre tesi, se si parla di Taiwan, in particolare dopo la recente approvazione di una potenziale vendita di armi americane all’isola, tra cui missili caccia F-16, per 619 milioni di dollari. Pechino ha chiesto ufficialmente di interrompere la vendita di armi a Taiwan e smettere di creare tensioni nello Stretto. Ma sono notizie che non sembrano allarmare i ventenni di Taipei, per i quali a quanto pare lo spauracchio dell’invasione è stato strillato troppo a lungo per essere ancora urgente. Sotto la superficie del dibattito sull’identità taiwanese e sui paragoni con l’Ucraina, Taiwan appare troppo presa dalla vita moderna, troppo dipendente dalla Cina e troppo sicura della sua libertà per prendere veramente sul serio le minacce del gigante della porta accanto.