Elezioni. Taiwan, «l'isola che non c'è» continua a sfidare l'impossibile
Una scena del film «Detention», che rievoca la repressione a Taiwan contro i simpatizzanti del Partito comunista.
Alla fine di ogni proiezione gli spettatori si alzano in piedi, tutti, e applaudono per qualche minuto. Quando escono, molti hanno le lacrime agli occhi. Colpa, o piuttosto merito, di Detention, il film rivelazione dell’anno, girato in pochi mesi da John Hsu, un giovane regista che ha tentato il tutto per tutto affrontando di petto il tabù dei tabù: gli anni del 'Terrore Bianco', quanto la polizia segreta del Kuomingtang rapiva, sequestrava e faceva sparire, spesso dopo averli torturati, i 'comunisti', o presunti tali che il Generalissimo Chiang Kai-shek era convinto stessero progettando un golpe per riportare l’isola sotto la sovranità di Pechino. Anni di terrore, di legge marziale, quando Taiwan, 'l’isola che non c’è' era, e giustamente, considerata un covo di irriducibili, violenti e disperati, nazionalisti.
Questo fino a metà degli anni ’90, quando prima Chiang Ching-kuo, figlio del Generalissimo, e poi Lee Teng-hui, primo presidente eletto e primo leader politico 'indigeno' (nato cioè nell’isola) avviarono una serie di importanti ed efficaci riforme. E tutto cambiò. L’isola che non c’è continua a non esserci. Oramai sono solo 15 i Paesi che la riconoscono come Stato indipendente – la maggior parte nei Caraibi e in Africa, con l’importante eccezione della Santa Sede –, ma nel frattempo Taiwan è diventata la ventesima potenza economica del mondo ed una delle più avanzate e solide democrazie dell’Asia. Non solo.
È l’unica nazione cinese, di tutti i tempi, che ha eletto ed elegge democraticamente il suo leader. Una donna, per giunta. Tsai Ing-wei, 63 anni, formazione giuridica e da sempre in politica, è stata eletta con ampio margine nel 2016 e rischia di essere rieletta sabato, dopo aver recuperato in pochi mesi quello che sembrava un incolmabile ritardo rispetto al Trump locale (anche se lui si arrabbia quando lo chiamano così, dicendo di essere molto più colto ed intelligente), Han Kuo-yu. Fino a sei mesi fa c’erano 30 punti di scarto tra i due schieramenti, il DPP, Partito democratico progressista, e il KMT, o Kuomintang. Ora Tsai guida i sondaggi con quasi dieci punti. Effetto Hong Kong dicono tutti qui, e lo ammette anche lei, nelle poche interviste che concede. Ma anche merito suo e del suo team. Per tornare al potere dopo la sventurata era di Chen Shui-bian, il presidente che voleva dichiarare l’indipendenza formale dell’isola ma poi è finito in carcere assieme alla moglie per corruzione, il DPP ha puntato tutto su di lei, la 'signora' (ora che l’immagine di quella più famosa, Aung San Suu Kyi si è appannata, è lei ad aver ereditato questo appellativo). Una donna forte, intelligente, che difende con coerenza i suoi principi, capace però anche di mediare.
Due anni fa, con una decisione sofferta che ha rischiato di travolgere il suo governo, ha fatto approvare una riforma storica delle pensioni e della sanità. Estendendo l’assistenza sanitaria a tutti, ma proprio tutti i cittadini e imponendo rigorosi meccanismi per il calcolo e l’applicazione di ticket equi e socialmente sostenibili. E mentre la stampa conservatrice – pare su precise istruzioni di Pechino – l’accusa di ogni nefandezza (dall’essere una pervertita sessuale al rivelarsi, in quanto donna non sposata e senza figli, una leader incapace di prendere decisioni ponderate), lei va avanti per la sua strada. Prendendo posizione su temi delicati – Taiwan è il primo e per ora unico Paese asiatico ad avere legalizzato i matrimoni tra persone dello stesso sesso – come le pari opportunità, il salario alle casalinghe, la settimana corta (40 ore, settimana di 5 giorni). Durante il suo mandato Taiwan ha adottato una moratoria di fatto sulle sentenze capitali, che ha promesso di estendere nel caso venga rieletta. Nessuna condanna, nessuna esecuzione. Anche in questo caso, una piccola, grande eccezione per l’Asia.
Ma a Taiwan, 23 milioni di persone con un reddito pro-capite tre volte quello della Cina, la questione più importante è sicuramente quello dei rapporti con Pechino. 'Cross-Strait relations' (relazioni attraverso lo stretto), come le chiamano qui. E anche in questa campagna elettorale che si avvia oramai alla sua conclusione, condotta con grande entusiasmo e correttezza (nessun episodio di violenza è stato riportato, e i candidati – anche il più 'pittoresco' Han, che a suo tempo, in Parlamento, ruppe il naso con due pugni al futuro presidente Chen Shui-bian – non si sono mai insultati direttamente) l’argomento è il più trattato e delicato. Rispetto al passato anche recente, le due posizioni, quella tradizionalmente filo-cinese del Kuomintang e quella indipendentista del DPP, si sono avvicinate. Nessuno, neanche il pirotecnico Han – che peraltro ha promesso, se eletto, di portare Xi Jiping a Taiwan ed accoglierlo con tutti gli onori – auspica di rinunciare ad una sovranità oramai di fatto acquisita, anche se non riconosciuta dall’Onu e della stragrande maggioranza della comunità internazionale. Mentre nessuno, neanche a livello di slogan elettorale, nel campo DPP sostiene ufficialmente l’ipotesi, come ai tempi non così lontani di Chen Shui-bian, di cambiare la Costituzione, indire un referendum e dichiarare l’indipendenza de jure, oltre a quella, de facto, già in essere.
Non c’è nessun motivo di dichiarare formalmente una indipendenza che già esiste – ha spiegato di recente alla BBC il ministro degli Esteri Joseph Wu, uno «dei politici più preparati e attenti all’uso delle parole – noi condividiamo il principio che la Cina sia una sola. Infatti noi siamo Taiwan». A Pechino, da sempre e salvo ogni tanto ribadire le minacce di una 'riconquista' militare senza preavviso, stanno al gioco. E qui è la saggezza di un popolo che condivide quasi tutto, tranne gli ultimi 70 anni di storia politica. Nessuno, né a Taipei né a Pechino, pensa davvero che la riunificazione – o la secessione – sia un’opzione reale. A meno che non intervengano fattori e pressioni esterne, i cinesi tendono al compromesso, al pragmatismo, al progresso economico. Mai come negli ultimi anni l’economia di Taiwan dipende da quella cinese. Gli investimenti diretti ammontano ad oltre 100 miliardi di dollari, dal Paese si entra e si esce liberamente, persone, merci e denari. Quello che Pechino insiste nel chiamare 'un Paese due sistemi' a Taiwan non ha e non potrà mai avere senso, semmai, si pensa ma non dice, è vero il contrario: due Paesi, un sistema. Ed ecco perché sulle vicende di Hong Kong la signora Tsai si è sentita in dovere, più di una volta, di intervenire. Esprimendo il sostegno di Taiwan alle proteste e ribadendo che Taipei non accetterà mai il principio di 'un Paese due sistemi'.
A parte le piroette di Trump – la fiducia negli Stati Uniti, in questi ultimi mesi, è letteralmente crollata: oltre il 30% dei taiwanesi, e la percentuale tra i giovani è anche maggiore, dichiara di non fidarsi più del loro storico alleato – che la maggior parte degli osservatori qui considera tutto sommato innocue e strumentali, un rischio tuttavia c’è. «La nostra sopravvivenza come Paese sovrano dipende dall’economia cinese – sostiene Shih Ming-teh, soprannominato il 'Mandela cinese' per aver passato oltre 25 anni in carcere, equamente divisi tra il regime del 'terrore bianco' e quelli più recenti della cosiddetta 'predemocratizzazione' degli anni ’90 – se continua a crescere, siamo salvi e prima o poi ci riunificheremo pacificamente. Ma se la situazione dovesse peggiorare, e i leader di Pechino si trovassero a dover fronteggiare vere rivolte, la prima cosa che farebbero, per distrarre l’attenzione, sarebbe di lanciare un’offensiva militare per riconquistarci con la forza. È di questo che dobbiamo avere paura. Non del teatrino tra Trunp e Xi Jinping».