Opinioni

Segnale positivo dalla cancellazione del bando alla parola «Gesù». Quel sussulto di ragionevolezza di cui il Pakistan ha davvero bisogno

Fulvio Scaglione giovedì 24 novembre 2011
«Una pagina nera per il Paese, un ulteriore atto di discriminazione ai danni dei cristiani e un’aperta violazione della Costituzione del Pakistan». Impossibile sintetizzare meglio di così, cioè di come aveva fatto padre John Shaker Nadeem, segretario della Commissione per le comunicazioni sociali della Conferenza episcopale pachistana, l’intenzione dell’Autorità delle Telecomunicazioni di inserire anche 'Gesù Cristo' tra le 1.695 parole in inglese e in urdu vietate nella composizione degli short messages (Sms) telefonici. Il nome del Signore accanto a termini come 'Satana', 'idiota' o 'vai all’inferno'. Come sappiamo, il provvedimento è stato ritirato dopo veementi proteste. Che sono arrivate dai cristiani, ma anche da non pochi musulmani (in alcuni Parlamenti locali è stato ricordato lo sdegno dei cristiani quando negli Usa un pastore protestante provò ad organizzare il rogo del Corano) e da associazioni laiche che, dentro e fuori il Pakistan, si sono opposte all’assurdità della decisione. 'Bytes for All Pakistan', che si batte per la libertà d’espressione nelle telecomunicazioni, aveva subito annunciato l’intenzione di presentare ricorso in tribunale. Sarebbe stato davvero troppo passare, nel giro di pochi mesi, dalle battaglie di un ministro cristiano come Shabhaz Batti, assassinato dagli estremisti islamici il 2 di marzo, al bando del nome di Gesù. Se non si trattasse del Pakistan, cioè del Paese dove la legge sulla blasfemia tiene ancora in carcere, con accuse ridicole e a rischio di pena di morte, centinaia di persone e dove il fondamentalismo islamico ormai controlla intere regioni, la vicenda saprebbe più di commedia che di dramma. Non è così, nella sua conclusione si può tuttavia scorgere una ragione di ottimismo e di speranza. L’Autorità delle Telecomunicazioni, che fa capo al governo, ha dovuto fare marcia indietro perché, a quanto pare, in Pakistan esiste ancora una coscienza critica collettiva capace di farsi sentire, di farsi valere e di fare da scudo a un nucleo essenziale di valori che attengono alla politica (la libertà di culto e d’espressione) ma anche a un ambito spirituale più ampio, sia religioso (il rispetto del sentimento religioso altrui) sia laico (la capacità di far convivere, e reciprocamente tutelare, persone diverse sotto uno stesso tetto nazionale). I cristiani sono solo il 2% della popolazione pachistana (188 milioni di persone), eppure, almeno in questo caso, hanno saputo aggregare una 'forza' che è andata ben oltre l’arida legge dei numeri. Il che, appunto, fa intuire che nella società stanno forse germogliando i semi di una consapevolezza nuova o di una minore arrendevolezza verso una deriva estremista e violenta che a tratti, negli ultimi tempi, è parsa quasi inevitabile. È un fermento stabilizzatore di cui il Pakistan ha enorme bisogno, in una fase storica che lo vede sballottato da troppe contraddizioni. Il rapporto di amicizia e rancore che lo lega agli Usa, ad esempio. La relazione sempre più complicata con l’Afghanistan, oggetto del desiderio da un lato e fonte di violenza e instabilità dall’altro. La mai risolta competizione con l’India. La stessa incertezza di una democrazia interna abbastanza vitale da imporsi al regime autoritario del generale Musharraf, ma poi così incerta da subire il ricatto di gruppi mai davvero disposti a riconoscerla. Un ancoraggio ai valori e al senso della democrazia, prima ancora che alle sue procedure, è ciò di cui il Pakistan ha oggi più bisogno. Il rispetto della libertà religiosa, come dimostrano anche le vicende del Medio Oriente, è il primo di quei valori e il fondamento di ogni senso.