Meloni e Schlein. Sulle riforme è meglio parlarsi
Da una trentina d’anni la politica italiana vive di momenti, quando non di mode, e di formule. Una di queste prefigurava il cosiddetto “Partito della Nazione” ed è stata particolarmente in voga circa 10 anni fa, con sporadici ritorni di fiamma fino ai nostri giorni. Le elezioni per il Parlamento europeo che si sono celebrate in Italia sabato e domenica scorsi potrebbero (il condizionale è quanto mai d’obbligo) avercene dati due, di partiti della Nazione: Fratelli d’Italia, che non dello Stato, non del Paese, ma appunto della Nazione come “comunità di destino” (concetto da sempre radicato nella destra italiana) fa il suo punto di riferimento ideale; il Partito democratico, che nacque al Lingotto di Torino proprio con la vocazione - citiamo dal discorso pronunciato il 27 giugno 2007 da Walter Veltroni - di «unire gli italiani, unire ciò che oggi viene contrapposto. Nord e Sud, giovani e anziani, operai e lavoratori autonomi».
Gli altri partiti oggi inseguono, chi con la baldanza regalata da una ripresa forse insperata (Forza Italia, Verdi-Sinistra), chi con il fiato corto (Lega, M5s) e chi al passo perché si deve riprendere dalla batosta (Italia viva, Azione, Più Europa). Ma tutti, in ogni caso, con percentuali di consenso da meno di metà fino a un quarto dei primi due. È per questo che qualche commentatore, constatando il ritorno di un bipolarismo di fatto, si è spinto addirittura a ipotizzare una prospettiva bipartitica. Prospettiva senz’altro prematura e tutta da verificare nei prossimi anni.
Per il momento basterà osservare che, se i partiti che hanno la pretesa di unire gli italiani sono due (con annessi alleati) e sono avversari, quanto meno dovrebbero cercare di ritrovarsi sul terreno di una comune cultura delle istituzioni. Ricordare, per esempio, che la Costituzione è modificabile ma è sacra alla nostra (di tutti) democrazia, e che perciò quando ci si propone di cambiarla è il caso di farlo con una maggioranza molto più ampia di quella che regge il governo in quel momento storico. Non è consigliabile dire “lo facciamo e poi ci affidiamo al referendum confermativo”. In primo luogo perché il referendum non è un’ordalia, in secondo perché, non essendo richiesto un quorum e visti purtroppo gli attuali livelli di partecipazione alle elezioni, non è il caso di affidare le sorti del Paese a un’esigua minoranza di cittadini. Quando è stato fatto è sempre andata male: o la riforma costituzionale fatta a colpi di maggioranza si è infranta sui No referendari oppure è passata (vedi nel 2001 la riforma del Titolo V targata centrosinistra: 64,2% di Sì, con un’affluenza di appena il 34,1%) ma ha prodotto risultati a dir poco non esaltanti.
Le donne che guidano Fdi e Pd, Giorgia Meloni ed Elly Schlein, si sono sentite al telefono dopo le elezioni per «complimentarsi reciprocamente» dei buoni risultati ottenuti, ha riferito la segretaria dem. Le due hanno una concezione molto diversa della leadership e, probabilmente, dei rispettivi partiti. La premier si è candidata come capolista alle europee per portare ancora più in alto Fratelli d’Italia e ci è riuscita, rastrellando 2,4 milioni di preferenze nelle cinque circoscrizioni e lasciando indietro anni luce i suoi colleghi di partito. Insomma, chi vota Fdi vota prima di tutto Meloni, anzi «Giorgia». Schlein si è candidata come capolista del Pd in sole due circoscrizioni e ha preso circa 220mila preferenze, meno di diversi altri. Meno, per dire, di Stefano Bonaccini, che è il presidente del partito e anche capo dell’opposizione interna alla segretaria.
Le due leader, se volessero, potrebbero trarre dalla tornata elettorale europea alcune preziose indicazioni. Meloni potrebbe pensare che ai suoi elettori il premierato come lei lo immagina può andare bene fino a che vince «Giorgia», ma poi? E potrebbe anche riflettere su come sono andate le cose nella Circoscrizione Sud: affluenza appena al 43,7% e Pd primo partito, davanti a Fdi. Sembrerebbe un bel campanello d’allarme sull’autonomia regionale differenziata.
Allo stesso tempo Schlein ha sperimentato che fare proposte (salario minimo, sanità pubblica, debito comune per affrontare i costi del green deal europeo) anziché dire soltanto “no” e scendere in piazza per parlare con le persone, non solo per protestare, fa guadagnare consensi. Potrebbe provare a farlo anche sul piano delle riforme: ai suoi gruppi parlamentari ieri ha indicato di proseguire sulla strada dell’«opposizione dura», ma chiedendo di «riaprire la discussione» su premierato e autonomia. Una discussione si riapre se si è intenzionati a dialogare, non solo a litigare. Archiviati i complimenti reciproci, sarebbe un buon argomento per la prossima telefonata.