Lettere. Sul muro è rimasto solo il chiodo. Ma chi ha cuore «vede» un crocifisso
Caro Avvenire, sono in un ospedale di fianco alla mia piccola figlia ricoverata, al momento non c’è nessuno con noi e ho notato su un muro della stanza la presenza di un chiodo solo, immagino che tempo fa sostenesse una croce, e mi sono venute in mente queste parole che volevo condividere con voi: Un chiodo solo, Testimone silenzioso di una antica Presenza Che reggeva instancabile il Crocifisso sul muro Imperturbabile, umile, tenace Ha perso la sua ragione di esistere, Un chiodo solo Sentinella immobile che ci domanda una ragione Certe volte tutto quello che resta dell’identità perduta Un chiodo solo Cugino lontano di quei santi chiodi Testimone di una Assenza Speranza di ritrovo...
Pablo Pellizzoni Vignate (Milano)Quanto può essere silenziosa una stanza d’ospedale, nelle lunghe ore in cui si veglia una persona cara. È un silenzio particolare, denso, nel quale perfino dei passi che si allontanano in un corridoio fanno rumore. In un tale silenzio lo sguardo vaga, come cercando qualcosa cui appigliarsi, sul bianco dei muri. E trova, nel caso del nostro lettore, solo un chiodo, in alto, sulla parete centrale. Un chiodo che evidentemente sosteneva un Crocifisso, che qualcuno ha ritenuto di dover togliere; e che ora, inutilizzato, se ne sta col suo moncone nero sulla parete bianca. Ma quel chiodo dimenticato evoca ancora ciò che reggeva, in noi cresciuti in un Paese di tradizione cristiana. Anni fa andai a fare una intervista a un medico che dirigeva un reparto dell’ospedale psichiatrico di una città toscana. C’era già stata la riforma Basaglia, ma le malate agitate e deliranti, in Trattamento sanitario obbligatorio, erano trattenute e sorvegliate in stanze chiuse, da cui non potevano andarsene. E in quel reparto, nonostante gli psicofarmaci che certamente venivano somministrati alle ricoverate, per un quarto d’ora, mentre aspettavo il primario, ho assistito alla lacerazione e al dolore acuto delle psicosi deflagranti. Non apparivano violente, le donne nelle stanze, ma assenti, immobili, quasi pietrificate; o ripetevano come una cantilena dolente le ossessioni che le tormentavano. Mai come quella mattina ho percepito quanto la follia è solitudine assoluta di uomini e donne chiusi in un loro inaccessibile castello: raggelata solitudine, dentro un orizzonte desertico – giacché nessuno veramente, per quanto vicino, può sapere quale inferno quei malati hanno nel loro cuore. Quella che mi fece più pena e che mi rimase indimenticabile era una donna anziana, scarmigliata, che andava ripetendo senza sosta su e giù per il corridoio, come in una condanna: “Io sono morta, sono già morta, sono già stata seppellita...”. Dopo un po’ che continuava, io istintivamente alzai gli occhi al grande Crocifisso, alto su un muro. Solo lui, pensai, può capire questo strazio. Leggendo la lettera del signor Pellizzoni mi è tornato in mente quel Crocifisso. Quanto sarebbe stato più inumano e freddo quell’ospedale, se il muro fosse stato vuoto, senza Cristo con le braccia spalancate. Se solo un chiodo fosse rimasto, sulla parete nuda. Eppure, chi ha occhi e cuore perfino in un chiodo dimenticato, in un’assenza, sa trovare memoria della presenza di Cristo. Di quella croce che da secoli, in milioni di stanze bianche, accompagna in silenzio la sofferenza degli uomini.