Ucraina. Sul fronte interno del Donbass nella guerra a bassa intensità
«Quell’estate di sette anni fa non riuscivo a mettermi in contatto con mia madre. Non sapevo se fosse viva. Quando poi abbiamo ristabilito la comunicazione, ogni giorno al telefono trovavamo il modo di dirci addio. Non sapevamo se ci sarebbe stata un’altra occasione»: a ricordare le prime fasi dell’unico conflitto oggi in corso nel vecchio continente, nella regione del Donbass in Ucraina orientale, è una ragazza di venticinque anni di nome Alyona. «Niente cognome, per favore, le autorità di Lugansk non approverebbero l’intervista».
La incontriamo con sua madre nella capitale ucraina Kiev, tra gli eleganti palazzi color pastello del centro, poco prima che rientrino a casa loro, a Lugansk appunto, 800 chilometri più a est. Insieme a Donetsk, nel 2014 la città è passata sotto il controllo di ribelli separatisti filo-russi che, armi in pugno, hanno dato vita a due auto- proclamate “Repubbliche Popolari”. La Russia, appena al di là del confine, storicamente legata a doppio filo a questa regione dove la popolazione è russofona, sostiene entrambe le “repubbliche” politicamente, finanziariamente e, senza riconoscerlo in maniera ufficiale, militarmente. Non le ha, tuttavia, mai annesse, come invece è accaduto alla Crimea. «Ora i combattimenti avvengono lontano da Lugansk, dove si vedono soldati solo attorno alle sedi istituzionali, ma l’estate di sette anni fa è stata spaventosa», prosegue Alyona.
Quei mesi sono stati solo l’inizio: due accordi raggiunti a Minsk, in Bielorussia, hanno messo fine nel 2015 ai combattimenti su larga scala, ma da allora e ancora oggi sul terreno continuano ad affrontarsi truppe ucraine e ribelli separatisti, in scontri intermittenti di intensità variabile, lungo i 470 chilometri della “linea di contatto” che taglia in due il Donbass e separa i territori rimasti governativi da quelli passati ai ribelli. Quattordicimila fino ad ora i morti tra civili e militari, 1,8 milioni gli sfollati interni, in uno stillicidio di dolore, esposizione quotidiana al rischio e vite dirottate verso non si sa quale destino. Diversi i cessate il fuoco raggiunti, l’ultimo un anno fa, ma le violazioni sono quotidiane (nel luglio scorso, rivela la Missione Speciale di Monitoraggio Osce, sono state 7.500, tra esplosioni, spari, scoppi). Ad aprile la tensione è tornata a livelli d’allarme quando un nutrito contingente di truppe russe si è radunato sul confine facendo temere un’incursione poi non avvenuta. «Moriva molta gente ogni giorno quell’estate, e io non riuscivo a capire chi avesse fatto scoppiare il conflitto, e perché. In fondo, non c’erano Paesi stranieri ad attaccarci», aggiunge Alyona.
Un’esplicita aggressione dall’esterno non c’è forse stata nel Donbass, ma certo la Russia è stata da subito della partita, con tutto il suo ingombrante peso nelle retrovie. Dall’indipendenza seguita al crollo dell’Urss, l’Ucraina è sempre stata in bilico tra aspirazioni europeiste e la storica attrazione verso l’orbita di Mosca, per la quale un’Ucraina rivolta a occidente è una spina nel fianco, una minaccia insopportabile ai propri confini. Kiev resiste alla pressione, per non finire come la Bielorussia, di cui tanto si discute in questi giorni. Così quando nel 2013 e 2014 vaste rivolte di piazza (la rivoluzione Euromaidan) contro l’allora presidente ucraino Viktor Yanukovich, filorusso, ne hanno provocato la caduta, la reazione del Cremlino non si è fatta attendere: prima l’annessione della Crimea, poi il sostegno ai gruppi di insorti dell’industrializzato Donbass.
«Anno dopo anno è andata sempre peggio: salari, prezzi, opportunità. Siamo isolati, viviamo come zombie. Pen- savamo di diventare parte della regione russa di Rostov, ma oggi non siamo né Russia né Ucraina. C’è gente pro-Kiev e altra pro-Mosca, ma se dici che parteggi per l’uno o l’altro campo vai incontro a problemi. E parlarne non cambia le cose. Siamo stanchi, vogliamo che la guerra finisca», conclude Alyona.
Per cercare di capire come si possa vivere per anni sulla linea del fronte di una guerra che, pur a bassa intensità, conti- nua a provocare vittime, lasciamo la capitale e percorriamo 650 chilometri puntando a est, tagliando dritto attraverso pianure vastissime, in un susseguirsi di campi coltivati. Arriviamo nella città di Kramatorsk, duramente contesa nel 2014, ma alla fine rimasta sotto controllo ucraino. Oggi funge da capoluogo alternativo, dopo che Donetsk è andata perduta. Siamo a 70 chilometri dalla “linea di contatto” e qui aspettiamo dalle autorità il permesso di entrare nella “ buffer zone”, la fascia cuscinetto lungo il fronte.
«In città sono registrati 50.000 sfollati interni, ma non tutti ci sono rimasti a vivere» ci spiega Konrad Clos dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim). «Molti vanno e vengono attraverso la linea di contatto per incassare le pensioni, ogni tre mesi. Hanno conti bancari qui. Molti sfollati lavorano e sono integrati, altri faticano e vivono in centri collettivi, condividendo spazi tra famiglie». A riprova del fatto che nessuno qui si aspetta una rapida risoluzione del conflitto, con i fondi del governo tedesco attraverso la KfW Development Bank, l’Oim ha avviato un progetto che in 5 anni prevede la costruzione di abitazioni destinate a 400 famiglie di sfollati a Kramatorsk e Sievierodonets. «Qui la gente tradizionalmente è proprietaria della propria abitazione. Con la guerra, dopo tanto risparmiare, la popolazione ha perduto le case e deve ricominciare da zero».
I profughi Fatima, Albina e Artem - Ghirardelli
Poco fuori dal centro, raggiungiamo l’abitazione della signora Fatima, sfollata da Lugansk e madre sola di quattro figli. Le facciamo visita insieme al personale di Caritas Ucraina che da anni le dà una mano. «Nel 2014 ero incinta di mio figlio Artem, così ci siamo spostati qui. È stato l’esercito ad aiutarci a venire via», racconta la donna, che ci accoglie in un salotto semivuoto, con un grande orsacchiotto in un angolo. Durante la fuga, alla figlia Albina è accaduto qualcosa di spaventoso. La traduttrice presente all’intervista si ferma per trovare le parole: «La bambina è finita col piede sopra qualcosa, all’inizio non capivamo cosa fosse. Era la testa di una persona, di un cadavere. Da quel momento Albina ha smesso di parlare per due anni». A portare supporto a questa come ad altre famiglie, nello staff della Caritas locale c’è Katerina Ovcharenko, lei stessa sfollata da Donetsk, dove prima della guerra insegnava giornalismo all’università.
«Pensavamo che tutto sarebbe finito presto, ma sono passati 7 anni. A Donetsk mio marito e io abbiamo una casa, vuota. A lungo abbiamo nutrito la speranza di tornarci, ma ogni giorno pare meno probabile». Il suo ateneo è stato trasferito nell’Ucraina centrale e l’azienda dove il marito lavorava è distrutta. «Difficile sarebbe trovare una nuova occupazione, e comunque le persone più care là non ci sono più: delle mie tre amiche strette una si è trasferita in Russia, un’altra in Spagna e la terza non vuole parlarmi perché ho deciso di vivere qui e di essere ucraina. Laggiù l’economia è depressa, niente import né export. Chi prima credeva nell’opzione russa ora ci sta ripensando ». Il Covid non ha fatto altro che aumentare le distanze: «Prima della pandemia era possibile viaggiare avanti e indietro. Con il blocco della frontiera ora è difficilissimo. Lo si può fare via Russia, così se prima per andare da Kramatorsk a Donetsk occorreva un’ora di viaggio, ora servono venticinque ore. La lontananza è fisica ma anche mentale. Siamo più distanti». Questo è il destino degli sfollati, a pochi chilometri in linea d’aria dalle loro vecchie case. Ma una sorte non meno dura tocca a chi è rimasto a vivere dentro la “ buffer zone”, a 10 o a 5 chilometri dai combattimenti, lungo la “linea di contatto'. Dalle autorità ucraine il permesso per raggiungerli è arrivato: è il momento di avvicinarci al fronte.
(1- Continua)