Sul confine e oltre/10. L'epoca del dono parziale
L’obbligo di reciprocità nello scambio non è una risposta a specifici poteri legati agli oggetti, ma una concezione cosmica che presuppone una circolazione eterna delle specie e degli esseri
Marcel Mauss, Saggio sul dono
All’origine dell’ethos dell’Occidente c’è il dono con le sue ambivalenze. Molti miti dell’inizio associano la storia umana al rifiuto degli uomini di stare e rimanere in una condizione di armoniosa reciprocità di doni. I racconti di Prometeo e Pandora ("tutto dono"), o quelli di Adamo ed Eva, ci dicono con linguaggi diversi che gli esseri umani sono incapaci di edificare la propria civiltà sul dono libero. Ma ci dicono anche che esiste un rapporto profondo tra dono e disobbedienza, tra gratuità e autorità, tra libertà e gerarchia. Nell’Eden la sottomissione della donna all’uomo, radice di ogni altra subordinazione sociale, è frutto della loro comune disobbedienza: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà» (Genesi 3,16). Dal fallimento del primigenio rapporto di reciprocità nasce la prima relazione gerarchica di dominio. E così la gerarchia diventa la principale risposta all’insuccesso della gratuità libera, la sua prima alternativa, il suo primo nemico.
Esiste, infatti, una tensione radicale tra la gerarchia e il dono. La gerarchia mangia i doni dei sudditi, li consuma sotto forma di sacrificio: i re, i faraoni, i sacerdoti, pretendono le primizie, vogliono sempre la parte migliore (Zeus condanna Prometeo perché gli offre la parte peggiore del toro squartato). Ma la gerarchia teme più di ogni altra cosa il dono libero e non orientato ai suoi obiettivi perché non orientabile. Cercare di trasformare il dono-gratuità in cose simili ma innocue è la tendenza-tentazione invincibile di ogni gerarchia, che fa di tutto per togliere dal dono la sua eccedenza ingestibile, il suo pungiglione velenoso perché libero.
Anche i governi delle organizzazioni hanno bisogno della creatività della libertà e del dono, ma vorrebbero solo quella che può (e che deve) rimanere dentro i confini stabiliti e custoditi. E così, nei momenti di crisi vera, quando la gratuità libera sarebbe la prima cosa veramente necessaria, ci si ritrova indigenti proprio di questo essenziale.
Sta quasi tutta qui la tragedia del dono nelle imprese e nelle istituzioni. Questa tragedia si manifesta a vari livelli. Le comunità e i movimenti della società civile, non di rado anche le imprese, nascono anche, e in molti casi soprattutto, dalle passioni, dai desideri, dall’eccedenza, dalla nostra voglia di vita, di futuro, di infinito. Quindi dalla nostra gratuità. Queste forme associate del vivere sono generate perché qualche persona, almeno una, un giorno vede spazi tutti nuovi e interminati per esprimere fino in fondo la propria personalità e i propri sogni. Vede che c’è un luogo, e quello soltanto, dove gli ordinari limiti che ci sono altrove sono scomparsi, dove le barriere sono cadute, o non si vedono più. Tutto diventa possibile. E parte verso l’infinito, anche quando tutto si compie in un sottoscala, o in un villaggio in mezzo alla foresta.
Poi con lo scorrere del tempo gli ideali e le passioni diventano pratiche, nascono le prime proto-istituzioni, si definiscono i responsabili, si scrivono le regole. Quindi i contratti, i regolamenti, e presto si forma l’inevitabile gerarchia. E così quelle comunità-movimenti diventano via via associazioni, organizzazioni, cooperative, imprese, che per poter funzionare e crescere hanno bisogno di gestire, normalizzare, eliminare e bandire quelle pratiche spontanee e quelle eccedenze che erano state all’origine della prima esperienza. Al fine di poterla gestire e incanalare dentro le regole di governo, per poter coordinare e orientare le azioni verso gli obiettivi istituzionali, diventa necessario uniformare e standardizzare i comportamenti. E muore la prima libertà dei primi doni. I soli doni che restano sono i sacrifici per nutrire la gerarchia e i suoi obiettivi, per sfamare la sua fame. Tutto ciò accade non perché il management sia cattivo o ottuso, ma per la stessa natura e vocazione della gerarchia, che per svolgere il suo compito deve incoraggiare le componenti più ordinarie, gregarie e addomesticate della creatività e della libertà, e quindi combattere le dimensioni più sovversive e destabilizzanti della gratuità, quelle che però sarebbero essenziali soprattutto nei momenti più importanti e delicati (crisi, cambi generazionali, prove…).
È questa una delle dinamiche più importanti delle istituzioni: una volta che la nostra gratuità ha generato organizzazioni, la dinamica intrinseca e necessaria del loro governo finisce per negare l’espressione e la pratica di quei doni liberi che l’avevano fatta nascere. L’organizzazione "figlia" mangia il dono "padre". È così che terminano molte tra le creazioni collettive più belle, perché il corpo generato dalla gratuità spegne lo spirito originario creativo e libero, il solo soffio che la vita conosce. Questo "teorema di impossibilità" scatta in molte organizzazioni e istituzioni, ma è centralissimo nelle cosiddette Organizzazioni a Movente Ideale (Omi) e quindi nelle comunità spirituali e carismatiche, che molte volte si spengono, appassiscono e muoiono perché la gerarchia e il governo impediscono alle sue risorse di gratuità di operare e quindi di salvare l’organizzazione dalla propria estinzione. Ne abbiamo quotidiana e ampia evidenza.
Alla base della progressiva eliminazione del dono libero, un ruolo chiave lo gioca il processo di trasformazione del dono in incentivo. Doni e incentivi sembrano realtà molto diverse. Ma se li guardiamo bene ci accorgiamo che sono concetti confinanti che si assomigliano. I rapporti di reciprocità basati sullo scambio di doni, creano per la loro stessa natura posizioni di debito/credito relazionale che sono altamente generativi e radicalmente complicati da governare. I doni che nascono per rispondere ad altri doni, non essendo mai equivalenti tra di loro, non riescono a compensare e a "saldare" il debito del primo dono, ma rialimentano il rapporto e riattivano il circuito della reciprocità. Quando, in altre parole, si riconosce un dono ricevuto e si cerca di ricambiarlo con un altro dono, il secondo dono non è il primo dono con il segno meno davanti, ma è un atto originario che tiene aperta e rilancia la catena delle reciprocità dei doni.
Ecco perché questa reciprocità, che è stato il primo linguaggio con il quale le comunità si sono incontrate e hanno iniziato a conoscersi, progressivamente ha generato la reciprocità commerciale del contratto. La corrispondenza perfetta ed equilibrata del contratto, infatti, mira a chiudere un rapporto, mentre la corrispondenza imperfetta e squilibrata della reciprocità di doni ha come scopo mantenere quel rapporto umano aperto, generativo, fecondo, e quindi imprevedibile, capace di sorprenderci e sorprendere, come la vita. Nella reciprocità tra doni il "credito" creato dal primo dono non viene compensato dal secondo dono, che resta eccedente, e questa eccedenza diventa madre di nuovi rapporti, alba di nuovi giorni. La compensazione tra doni è impossibile, o quanto meno è sempre imperfetta e parziale, perché non possediamo l’unità di conto per fare i calcoli, perché non li vogliamo fare, e per di più spesso li sbagliamo alimentando dissapori e conflitti. Come in un iceberg, la parte più grande e importante del dono è quella invisibile. Ciò che riusciamo a vedere è solo la sua superficie, ma sappiamo che al di sotto dei suoi segni vive una energia potente, misteriosa, capace di cose straordinarie: può riedificare un’intera comunità ma può anche distruggerla. Questa parte invisibile e oscura del dono è la radice del fascino e della paura che il dono ha sempre esercitato ed esercita su di noi.
Ma – e siamo nel cuore della tragedia del dono – la sua parte sommersa, i calcoli non fatti e i conti che non riportano, i debiti e i crediti che non si compensano tra di loro, sono quanto più odiano le imprese, e in genere le organizzazioni. L’utopia di ogni organizzazione è allora riuscire ad ottenere la creatività, la passione, l’energia, la generosità dell’homo donator senza le sue ambivalenze, le sue richieste di gratitudine, le riconoscenze, senza legami. E così operano una manipolazione genetica e lo trasformano in homo oeconomicus. L’incentivo è il primo strumento per tentare la manipolazione del dono in contratto. I due si assomigliano, un po’: l’homo oeconomicus è un homo donator privato della sua energia originaria, creatrice, destabilizzante e distruttiva.
L’incentivo, se lo osserviamo bene, si presenta realmente come una sorta di contro-dono all’interno di una forma di reciprocità. È quanto il principale (proprietà e/o management) "dona" all’agente (il lavoratore) in cambio di un dato comportamento fatto a suo vantaggio. Ecco perché qualche economista (tra cui il premio Nobel George Akerlof) ha descritto il rapporto di lavoro come uno "scambio di doni", aggiungendo, onestamente, l’aggettivo "parziale". L’incentivo può essere descritto come un contro-dono parziale, perché totalmente spuntato della sua componente libera, per rendere l’agente controllabile e gestibile dal principale. Non a caso l’incentivo è spesso chiamato dalle aziende (impropriamente) premio, al fine di sottolineare simbolicamente la sua dimensione di dono simulato, di dono… parziale. Peccato che se c’è qualcosa nella vita umana che non si presta a riduzioni parziali, a essere accorciato, spuntato, tagliato, è proprio il dono. Diversamente da altre realtà viventi, il dono vive solo se è intero: se lo riduco, lo dimezzo, semplicemente lo uccido. L’incentivo, presentandosi come dono ridotto e parziale, è in realtà l’anti-dono, l’antidoto che difende il corpo aziendale dal dono vero e libero, che scompare e non c’è più quando ne avremmo bisogno per ripartire, per risorgere. Le imprese continuano a vivere, a nascere e a rinascere perché tanti lavoratori violano il tabù della gratuità, subendone tutte le conseguenze. Le imprese non lo sanno e non lo vogliono, ma se sono vive e rinascono è perché il tabù della gratuità è ogni giorno profanato da persone libere che non riescono a non donare, nonostante il divieto di farlo. Non riusciamo a non donare perché siamo vivi, e perché gli incentivi sono troppo poco: vogliamo e valiamo molto di più.
Molto tempo fa, il dono generò il mercato. Potrà, un giorno, il dono rinascere dal cuore del mercato?
l.bruni@lumsa.it