Opinioni

Fine vita. Suicidio assistito, i paletti per una legge senza arbitrio

Francesco Occhetta venerdì 1 novembre 2019

L'udienza della Corte Costituzionale sul fine vita (Ansa)

Il 25 settembre la Corte costituzionale si è espressa sull’articolo 580 del Codice penale sull’istigazione e l’aiuto al suicidio, che punisce senza condizioni chi abbia aiutato una persona a mettere in atto la sua decisione di porre fine alla propria vita. La sentenza, destinata a riaprire il dibattito sul fine vita, va considerata come una sorta di voce supplente del Parlamento, che non è ancora riuscito a regolare la materia a causa degli scontri ideologici tra partiti. La Corte costituzionale ha così introdotto nell’articolo 580 del Codice penale una scriminante che giudica 'non punibile' la condotta di chi agevola l’esecuzione del proposito di togliersi la vita quando ricorrono quattro circostanze rigorose e stringenti: «Un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». La norma, che è autoapplicabile, avrà però bisogno che il Servizio sanitario nazionale accerti le quattro condizioni citate, rispetti la normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda e senta il comitato etico territorialmente competente.

Infine la Corte costituzionale ha chiesto al Parlamento di intervenire rapidamente: la sentenza rappresenta una fessura in una diga che potrebbe cedere da un momento all’altro e cancellare a livello culturale e medico, secondo l’antico principio de iure condendo, le restrittive condizioni giuridiche imposte dai giudici. È questa la principale ragione che ha riacceso e diviso il dibattito pubblico sul fine vita. (...)

Una cultura democratica che si dice liberale (non liberista) e basa il fondamento della libertà sulla responsabilità verso l’altro è chiamata a pronunciarsi sul fine vita senza evitare il tentativo di esorcizzare un’inquietudine che da sempre abita il cuore dell’uomo e a interrogarsi pubblicamente sulle ragioni del dolore e della morte. Il centro della nuova legge non potrà che basarsi sulla condivisione della scelta alla quale concorrono il malato, quando è ancora cosciente, i medici e i familiari nell’ambito di una valida relazione di cura. Fuori da questa relazione fondante, e in assenza di limiti, 'staccare la spina' finirà per essere un arbitrio contro il valore della vita, che rimane sacra anche per la cultura laica.

Nella sentenza della Corte costituzionale si trovano molti elementi per un dibattito maturo e adulto da fare in Parlamento: dall’autodeterminazione del paziente, intesa come principio non assoluto, alla protezione dei soggetti deboli come i minori; dall’obbligo di rimanere in un contesto medico all’interno di una struttura pubblica al parere del comitato etico necessario per prendere una decisione; dall’esclusione categorica che l’eutanasia sia ammessa come 'atto medico' al divieto per le cliniche private, come quelle in Svizzera, di diventare i luoghi della dolce morte e centri per nuovi business. La sentenza potrebbe orientare il Parlamento a trovare un punto di equilibrio tra la posizione libertaria, che considera il principio di autodeterminazione un assoluto, e la posizione statalistico- paternalista della legislazione vigente, che non include l’autodeterminazione del soggetto. Lo ribadisce la Corte costituzionale, che nella sua ordinanza 207 del 2018 «guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi », e chiede al Parlamento di «proteggere il soggetto da decisioni in suo danno». Il Parlamento potrebbe riscrivere l’articolo 580 del Codice penale, limitando la fattispecie dell’aiuto al suicidio ai soli soggetti che concorrono alla decisione e distinguendo la pena per l’aiuto al suicidio in generale dall’istigazione al suicidio, che rimarrebbe reato. Così l’aiuto al suicidio resterebbe un reato sotto il profilo oggettivo, con una clausola di non punibilità al verificarsi di condizioni specifiche. Il magistero della Chiesa, di fronte a dilemmi morali e alla responsabilità della politica, ricorda che «se la pubblica autorità può talvolta rinunciare a reprimere quanto provocherebbe, se proibito, un danno più grave, essa non può mai accettare però di legittimare, come diritto dei singoli – anche se questi fossero la maggioranza dei componenti la società –, l’offesa inferta ad altre persone attraverso il misconoscimento di un loro diritto così fondamentale come quello alla vita» (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 71).

Occorre precisare meglio, ad esempio, come possa prendere una decisione un paziente tenuto in vita da un sostegno vitale. La legge dovrebbe anche regolare il dirit- to al trattamento sanitario e i suoi limiti, che è invece lasciato nelle mani dei giudici, ma anche precisare meglio la relazione di cura tra medico e paziente basata sulla fiducia anche davanti a prognosi infauste. In Parlamento sono depositate 10 proposte di legge: per quale ragione manca un vero dibattito parlamentare su questo tema? Il M5s, insieme a parte della sinistra, appoggia il suicidio assistito per aprire alla cultura dell’eutanasia? Ci chiediamo: qual è il valore primo del legislatore? Rafforzare una relazione, o esaltare (solo) l’autonomia dell’individuo? È sufficiente sostenere che la persona è sovrana della sua morte? Le leggi che disciplinano il fine vita possono essere regolate dall’utilitarismo, attento a tagliare le spese sanitarie, liberare dai sacrifici chi assiste, evitare la sofferenza? Oppure devono essere nutrite dalla cura della dignità umana e dalla pietas, che è responsabilità di accompagnare a morire con dignità? A questo proposito, il capo gruppo del Pd alla Camera, Graziano Delrio, ha rassicurato che «la legge dovrà chiarire che la morte non è un diritto, priorità è curare», mentre da medico si è detto «abbastanza perplesso sul tema della sanitarizzazione del suicidio, perché la relazione di cura è quella che può determinare anche un accompagnamento fino alla morte».

Il legislatore, senza sfidare la sentenza, è chiamato a rimanere nel solco della direzione tracciata dalla Corte e circoscrivere le clausole, garantendo il diritto di obiezione del personale medico. Esentare singole persone che collaborano senza depenalizzare il reato in generale permetterebbe al personale medico di non essere obbligato a compiere un atto contro coscienza. I fatti che costituiscono reato devono essere regolati dalla legge con la massima precisione; per questo il Parlamento ha il dovere di rispettare il monito della Corte come buona prassi democratica. Le proposte di legge, invece, che permettono soluzioni che consentono di togliersi la vita senza un intervento di un terzo infrangerebbero la volontà della Corte, che si è limitata a decidere su persone capaci di decidere autonomamente e che non intendono avvalersi delle cure palliative, ma non sono in grado di 'togliersi la vita' autonomamente, come è stato il caso di Dj Fabo. L’orizzonte antropologico per rispondere alla cultura del suicidio assistito deve essere quello della solidarietà e dell’aiuto concreto e possibile, che va oltre ogni principio. (...)

Se il Parlamento sceglie di promuovere il principio di autoderminazione – secondo il quale una persona può decidere di disporre della propria vita autonomamente –, deve anche garantire le cure necessarie perché si possa prendere una decisione serena, come l’aiuto concreto alla solitudine dei caregiver (le relazioni familiari che si prendono cura del paziente), l’assistenza domiciliare, con incluse le cure palliative, un assegno familiare congruo per le spese da sostenere e così via. Rimane infine una scelta politica di fondo: ritornare alla fonte dell’esperienza dell’ammalato, della sua famiglia e del contesto sociale e relazionale, altrimenti i detriti portati alla foce continueranno a paralizzare il dibattito parlamentare a causa delle divisioni, delle fazioni ideologiche e degli interessi particolari dei singoli partiti e dei gruppi di lobby utilitaristiche. La soglia antropologica per incontrarsi fra tradizioni culturali diverse sul tema del fine vita rimane quella di riconciliare la personalizzazione della medicina e la sua umanizzazione con la tecnicizzazione della medicina stessa, in cui l’azione del 'curare' ( to cure) la malattia matura insieme al 'prendersi cura' (to care) anche del mondo affettivo, relazionale, psicologico e spirituale del paziente. Del resto, lo scopo di ogni civiltà non è il progresso della scienza e delle macchine, ma la centralità e la difesa della dignità della persona.

(L’articolo è un estratto da Civiltà Cattolica, n.4.065, 2-16 novembre 2019)