Bioetica. Suicidio assistito, bastano 42 giorni per decidere su vita e morte?
Roberto Colombo
Quarantadue anni è il tempo che ci separa dal settembre 1981, quando uno zio romano ferì a morte il nipote diciottenne, affetto da idrocefalia congenita, e diede avvio al dibattito sociale, giuridico e politico nel nostro Paese sull’omicidio di un consenziente, successivamente divenuta la discussione sul “suicidio assistito”.
Al fatto e alla sentenza della Corte d’Assise, che nel 1983 concesse all’imputato le attenuanti legate al consenso del malato e al movente della “pietà” verso il giovane gravemente sofferente, sono seguiti altri episodi e pronunciamenti giudiziari e atti amministrativo-sanitari che non hanno affatto esaurito la discussione. Quattro decadi di riflessioni, incontri e scontri non sono bastati a fornire ragioni cogenti per far convergere le differenti posizioni in una decisione largamente condivisa, non lacerante la coscienza di quanti sono coinvolti in una scelta drammatica e dalle conseguenze irreversibili sia per il singolo paziente che per la cultura e la pratica dell’assistenza sanitaria. Nell’etica e nel diritto della vita umana non esiste l’una tantum. Ciò che è concesso a uno in circostanze singolari, derogando alla norma e alla prassi consolidata, diventa rivendicazione di un “nuovo diritto” per tutti.
Secondo la recente delibera della giunta regionale dell’Emilia-Romagna, quarantadue sono anche i giorni che intercorreranno tra l’espressione del desiderio di un malato di morire e il momento in cui si potrà attuare l’esecuzione della procedura di suicidio medicalmente assistito. Impressionano i tre ordini di grandezza temporale (da anni a giorni, passando per mesi e settimane) che separano una lunga, ponderata e ancora inconclusa disamina della delicatissima questione in diversi ambiti civici e istituzionali da una sbrigativa decisione in corsa tra il letto di degenza, le case dei familiari, gli studi medici, gli uffici legali, le sedi amministrative e quelle giudiziarie.
Le ragioni del sì e quelle del no, che non sembrano aver convinto del tutto i cittadini, la comunità civile e la sua rappresentanza politica in tanti anni, potranno forse comporre i pensieri, gli affetti, i doveri e i diritti, e dissipare dubbi e incertezze che attanagliano simili frangenti, in poche manciate di giorni?
Di fronte alla morte, il tempo ha il suo peso e diventa occasione per riflettere sulla propria vita e quella degli altri, e dare valore anche a ciò che non si era preso in considerazione prima. Il bene della vita lo si scopre, talvolta, solo guardando in faccia alla morte: la nostra, e la morte di chi ci è stato affidato in cura, come genitori, figli, fratelli e sorelle, mariti e mogli. O come medici e infermieri. Lo sanno bene coloro che vedono avvicinarsi il termine della propria vita terrena, di quella dei congiunti o dei pazienti.
«Come possiamo gioire del diritto alla morte? – si è chiesto il cardinale Zuppi domenica, nella Giornata del malato –. Gioiremo solo per il diritto alla vita, quando questa viene protetta dalla sofferenza da cure adeguate che diano dignità fino alla fine, perché la cura è il vero diritto». La realtà del malato grave e inguaribile richiede non solo la presa d’atto dell’assenza di una terapia capace di restituirgli la salute o prolungargli la vita ma anche l’esigenza di prodigargli le «cure più idonee», atte a «garantire un livello di cura alto», senza «desistenza» assistenziale, né «un’ostinazione irragionevole» in terapie futili.
La delibera regionale emiliano-romagnola costituisce un triplice strappo al tessuto culturale e alle istituzioni della società. Uno strappo all’umanesimo europeo – di radice ebraico-cristiana – la cui concezione antropologica e morale guarda alla vita, anche nella sofferenza, come un bene individuale e sociale da custodire e promuovere sempre. Uno strappo alla sentenza 242 del 2019 della Corte costituzionale che ha rinviato al Parlamento, e non al legislatore regionale (e tanto meno alla struttura amministrativa) il compito di affrontare la questione per colmare lacune regolatorie su alcuni casi specifici e assai circoscritti nei quali la norma penale potrebbe conosce una limitatissima eccezione. Infine, lo strappo è anche alla vocazione (laica) della medicina e dell’infermieristica: quella di prendersi cura sempre e di chiunque soffre, mai di divenire strumento di morte.