Opinioni

Vita da cronista. Su quell'ambulanza ho imparato che siamo fragili e ad avere pietà

Marina Corradi martedì 16 luglio 2024

L’ambulanza correva verso la periferia Ovest di Milano dentro a una nebbia fitta. Era la mia prima sera di turno, volontaria sulle ambulanze. Inverno 1980, avevo 21 anni, e un grande desiderio di scoprire la realtà. Forse avevo in mente anche mia madre, che era stata volontaria della Croce Rossa sulle navi dell’Esercito, in guerra. Avevo fatto un corso essenziale di primo soccorso al Policlinico, poi quella sera mi avevano dato un camice bianco ed ero salita sulla lettiga con i miei compagni: svelta, perché c’era una chiamata urgente.

Correre di notte dentro la nebbia, nell’urlo della sirena, non mi fece paura. Ero in ansia invece per ciò che avremmo trovato: ci avevano detto di una donna nel sangue, su un marciapiede. Quartieri di stabili popolari tutti in fila, oltre via Forze Armate. L’autista frenò di colpo. C’era una ragazza davanti a un portone, riversa a terra, immobile. Il più esperto di noi si chinò in fretta a tastarle il collo, pochi secondi e si alzò desolato. Era già morta. Era giovanissima, sembrava una sudamericana. Per essere ridotta così, doveva essere caduta dall’alto.

A l quarto piano le finestre erano illuminate. Con un’altra volontaria salimmo: una porta era spalancata, come se qualcuno fosse andato via di corsa. Nell’appartamento, in un caos di stoviglie sporche e valigie aperte, nessuno. Anche le finestre del balcone erano spalancate. Erano esattamente sulla verticale della ragazza morta. Un suicidio, o un omicidio? Qualcuno l’aveva spinta giù, ed era fuggito? Ma un particolare mi bloccò: su un tavolo in cucina c’era un biberon azzurro, pieno di latte. Lo toccai, era ancora tiepido.

Arrivarono, in un coro di sirene, i carabinieri. C’era un bambino in quella casa, e chi se lo era portato via, e dove? Era una zona abitata da prostitute straniere, ci dissero. Forse la ragazza era una che aveva disubbidito? Aveva avuto un bambino, magari voleva smettere. Ce ne andammo e sulla lettiga nessuno di noi, tre ventenni e il giovane autista, parlava. Albeggiava, era gennaio mi pare, e cominciava appena a nevicare. Anche su quel marciapiede sporco di sangue, dove ora si accalcavano i carabinieri. La ragazza, lessi poi sui giornali, era davvero una sudamericana, della mia età. E il suo bambino? Non ne seppi più nulla, ma non ho mai dimenticato quel biberon ancora tiepido. Tornata a casa, non riuscendo a dormire, su una vecchia Olivetti Lettera 32 di mio padre scrissi un breve resoconto di quella notte. Quasi per caso. Fu il mio primo pezzo pubblicato sulla “Notte”, giornale del pomeriggio di Milano dove poi avrei iniziato a lavorare.

Non tutte le sere con la Croce Verde Baggio erano così drammatiche, grazie a Dio. Quando si partiva per andare “in colonnina”, cioè in determinati punti della città dove le lettighe sostavano e c’era un telefono collegato con il 113, eravamo allegri. Studenti, quasi tutti di medicina, ansiosi di fare esperienza. O, giovanissimi, di vedere la vita “vera”. Almeno, per me era così. Non ero una persona particolarmente compassionevole, e, allora, nemmeno ero credente. Volevo solo capire la mia città, oltre la mia casa borghese e il liceo perbene. Certe sere si attendeva mezz’ora in colonnina, all’angolo di via Primaticcio con Forze Armate. Sempre, d’inverno, in una coltre di nebbia fitta - quella nebbia che ora a Milano non c’è più. Dentro l’ambulanza, il motore acceso per scaldarci, parlavamo, ridevamo. O andavamo al dopolavoro Atm Baggio, all’angolo, affollato di tranvieri in pensione che giocavano a carte. Un incrociarsi di dialetto milanese e calabrese e siciliano, in una nuvola di fumo di Nazionali senza filtro. Ci offrivano il caffè: “Che bravi ragazzi, e così giovani...”

Anche quella Milano mi affascinava. Gente che aveva guidato il tram per 40 anni, e anche durante la guerra, quante storie avrebbe potuto raccontarmi? Che nostalgia di tutta quella vita, che non avrei mai saputo. Ma squillava il telefono alla colonnina, qualcuno aveva bisogno di aiuto. Eccola, la città autentica, non i negozi di via Manzoni dove mi portava mia madre. Le case minime: in sei in due stanze, incredibilmente ingombre di oggetti. La grossa tv troneggiante, come il nuovo vero capofamiglia; e libri di scuola e medicine, e pannolini, e anche ingenue palle di vetro con la neve che cadeva sul Duomo di Milano. Quasi sempre un crocifisso, sui muri. E sempre, sempre, l’immagine di Padre Pio.

In quelle case c’era un vecchio cui il fiato mancava, sudato, l’angoscia dipinta in faccia. Un padre arrivato dal Sud in treno, uno di quelli forse che avevano tirato su quei palazzi tutti uguali, nelle periferie, per la forza lavoro di cui Milano, nel boom anni ‘50, aveva bisogno. Spesso il malato non voleva andare in ospedale: sentiva che era la sua ora, e voleva morire a casa. Ma i figli, sperando forse di salvarlo, lo costringevano. Guardavo il vecchio mentre correvamo verso l’ospedale, e pensavo che sarebbe stato più pietoso lasciarlo morire accanto alla moglie, ai nipoti. Ma già, a Milano, non si usava più. Tacitamente non si voleva più vedere la morte, nelle nuove case faticosamente conquistate al Nord.

All’ospedale erano avvertiti dell’arrivo di una urgenza. Velocemente scaricavamo la barella, le porte del Pronto soccorso ci si aprivano e subito chiudevano davanti. Lo sconosciuto cui avevo tenuto la mano, dubitavo che sarebbe tornato a casa. Si usciva a fumare una sigaretta, a cercare di dimenticare quella morte vista così da vicino. Chi prendeva a parlare del Milan, chi degli esami all’Università. Giovani com’eravamo, riprendevamo istintivamente a vivere. Assistevamo al morire, ma come se in realtà non ci riguardasse. Come se i vecchi fossero un’altra specie di uomini, altri da noi.

Occorreva recuperare in fretta la barella, e ripartire. Talvolta allora entravamo nelle stanze del Pronto Soccorso. Mi è indimenticabile una donna sui sessant’anni, in arresto cardiaco, che i medici tentavano disperatamente di rianimare applicando la piastra del defibrillatore sul petto. Dall’angolo in cui aspettavo vedevo la poveretta, inerte, sobbalzare a ogni scarica, e ricadere pesantemente. Al terzo tentativo il medico di arrese. Un’infermiera la coprì con un lenzuolo. Mi sembrò un sipario. Fine. Non so come reggessi, due sere a settimana, la durezza di quella esperienza. Forse in realtà, già abituata ad essere sola, ero precocemente cinica, e la voglia di capire prevaleva sulla compassione.

Ma ci fu una volta che infranse quella mia barriera di vetro. Al Fatebenefratelli, era una calda sera d’estate, andammo a prendere una vecchia signora che tornava, ci dissero, a casa. L’accompagnava il marito. Pallido, in ansia, le teneva la mano, seduto accanto a lei sull’ambulanza. L’ossigeno scorreva nelle cannule, ma a me pareva che la donna non respirasse più. Guardai l’altro volontario, “Ssshh!”, mi fece cenno, con un dito sulla bocca.

Voleva tanto portarla a casa, la sua compagna, quell’uomo, e all’ospedale lo avevano accontentato. Andavamo ora, senza sirena, adagio, lungo il Naviglio, verso il rosso del tramonto estivo. Una casa dignitosa, un appartamento ordinato. In salotto, in cornici d’argento, le foto del matrimonio, dei figli, da bambini. Ma, quella sera, non c’era nessuno. Solo il marito con i capelli bianchi, che continuava a parlare dolcemente alla moglie: “Ci siamo, cara, sei a casa. Ho fatto anche un po’ di spesa, il frigo è pieno...” Lei era morta, e lui non voleva capire. Nelle stanze silenziose ronzava un moscone prigioniero. Ce ne andammo in punta di piedi. Il sole rosso di luglio che tramontava ci parlava di estate e di vita: e quei due, così soli. Quella sera per la prima volta capii: vecchi, saremmo diventati anche noi, e forse anche io un giorno, in un tramonto di luglio, sarei stata altrettanto sola. Fu una fitta al cuore: ma, finalmente, di pietà.

(1 - continua)