Lettere. Su quei treni viaggia la nostra «polis». La fiducia rende il Paese civile
Caro Avvenire,
il disastro di Pioltello ha sfiorato molte vite vicine alla mia e ne ha colpito duramente qualcuna. Su quei treni passano le nostre ore, in quei vagoni respira la nostra quotidianità. Abbiamo cominciato da studenti, matricole di Università: i mezzi ci portavano verso mondi nuovi che si aprivano nei nostri orizzonti. Abbiamo continuato da lavoratori, nei passaggi da un incarico all’altro. La mia esperienza, in trentacinque anni di microviaggi sulle rotte di Lombardia, è transitata sui binari Crema-Milano, poi Crema-Brescia, quindi Crema-Cremona, e infine di nuovo Crema-Milano, per insegnare in diverse Università. Per vent’anni in treno, negli ultimi quindici anni in autobus sulla Paullese. Stare sui treni per un’ora all’andata e un’altra ora a fine giornata, con un ritmo regolare nella rincorsa delle stagioni, è un’occasione preziosa di incontri: germogliano amicizie, nascono idee, crescono progetti di vita. Sono treni di lavoratori e studenti che spesso portano negli zaini i mandarini, infilati fra le fotocopie da studiare e l’ombrellino pieghevole. Ventenni assonnati ma carichi di voglia di conoscere e ricchi di scherzi e speranze, impiegati docenti medici manager informatici bancari che pensano alla famiglia rimasta a casa, alla giornata fitta di scadenze, alle notizie occhieggiate nella vetrina dell’edicola, prima di salire sul treno. Spesso si viaggia in piedi su quei vagoni sovraffollati: poche carrozze, tante mani aggrappate, umido e finestrini appannati, voci calme, brevi risate, confidenze, i commenti sui titoli dei quotidiani letti oggi sui tablet. Se politica è aver cura della polis, ricordiamo che quella è anche la nostra polis: un luogo dove si condivide la scelta o la necessità di spostarsi ogni giorno. Se politica è aver cura della polis, quei treni e quelle vite non possono essere dimenticati e lasciati in attesa di manutenzione. Le persone ferite, le donne che hanno perso la vita sono parte di noi. Poca retorica e impegno severo per migliorare le cose.
Quando su un treno pendolari, su uno delle migliaia di treni che ogni mattina, stracarichi, portano al lavoro o a scuola reggimenti di pendolari, improvvisamente irrompe la tragedia e la morte, è inevitabile, come fa con delicatezza e profondità la professoressa Carpani, porsi delle domande. Perché è vero che quei treni spesso vetusti, spesso in ritardo, con le fiancate sguaiatamente scarabocchiate da writers senz’arte, sono un pezzo fondante della polis, della città comune. Prendono quei treni gli studenti, e i lavoratori che vivono fuori città ma rigorosamente ogni mattina, alzandosi anche alle cinque, si mettono in marcia, per non mancare al loro appuntamento quotidiano. Su quei treni lenti che i convogli dell’Alta Velocità surclassano a trecento all’ora, fischiando, viaggia lo zoccolo duro dell’Italia che lavora e che produce, che studia e che insegna. Bisognerebbe averne maggiore rispetto, fornire carrozze nuove, posti a sedere per tutti, puntualità rigorosa. In Italia è normale invece che in un convoglio pendolari si stia in piedi, pressati, e che si arrivi in ritardo: quasi fossero tacitamente considerati, quei passeggeri, viaggiatori di serie B. A questa sciatteria siamo (quasi) abituati, come a un male endemico. Ma ciò che è accaduto l’altra mattina al treno 10452 di Trenord è ben altro, e tragico. Morire sul treno di tutte le mattine, sui binari tra Cremona e Milano, su una tratta fra le più battute d’Italia, pare incredibile. La immagine di quei 23 centimetri di binario spezzato, tanto pochi ne sono bastati per provocare la catastrofe, desta inquietanti interrogativi: che la scarsità di manutenzione per cui le carrozze sono trasandate e malconce possa estendersi, talvolta, addirittura alla vitale manutenzione delle linee? Com’è possibile che un binario ceda per la fatica del metallo e si spacchi, l’acciaio stremato, senza che i controlli si siano accorti di niente? Quante centinaia di migliaia di vite stanno sospese ogni giorno su ogni metro di binario? I nostri figli, i nostri mariti si affidano a quei convogli, rassegnati ai disagi ma tranquilli di arrivare. È una fatalità quel binario tranciato, o il segno di un’incuria in un servizio pubblico fondamentale? A volte, contemplando lo stato di tanta politica e di troppa pubblica amministrazione in questo Paese, viene da meravigliarsi che sostanzialmente l’Italia comunque ogni mattina vada comunque avanti, che gli ospedali funzionino, i bus viaggino, le scuole aprano, i treni marcino. I treni, appunto, marciano perché migliaia di addetti controllano scambi, centraline, binari; e anche questo regge la polis, e la fondamentale fiducia nelle istituzioni e nel prossimo che rende un Paese vivibile. Un incidente così grave alle porte di Milano, città considerata l’avanguardia d’Italia, getta un’ombra su questa fiducia. Su questa fiducia indispensabile nel vivere civile, per cui ogni mattina tanta gente si alza e prende un treno e va al lavoro: leggendo, chiacchierando o dormendo, la testa ciondolante appoggiata al finestrino, lungo il tragitto, certa com’è che il treno è magari lento e stracarico, ma segue sicuro la sua strada d’acciaio, e arriva sempre. Ecco, questa fiducia è una colonna portante del nostro vivere, di cui non possiamo fare a meno. Le vetture sventrate e capovolte di Pioltello ci turbano, oltre che per la sorte delle vittime, anche per questo. Rincuora che Sergio Mattarella, ieri, abbia saputo dirlo con il suo stile misurato e antiretorico, ma pieno di partecipazione, come presidente della Repubblica e come “primo concittadino”.