Opinioni

Ergastolo e processo. È stretto e in salita il binario verso una giustizia più umana

Mario Chiavario giovedì 3 novembre 2022

Ergastolo e processo: il quadro dopo le mosse del governo Ergastolo ostativo e rinvio della riforma del processo penale Due questioni distinte e non confondibili, ma non a caso accomunate, tra loro e con quella della risposta legislativa ai rave party, in un decretolegge all’insegna di “legge e ordine” e “tolleranza zero”. Molto specifica la questione dell’ergastolo ostativo, anche se non sono pochissimi coloro che vi sono assoggettati: più di 1.250 persone, secondo le ultime stime. Va premesso che da tempo, in Italia, l’ergastolo, nella sua versione “semplice”, pur restando sanzione pesantissima, non è più un “fine pena mai”, giacché di regola anche agli ergastolani, dopo 26 anni di detenzione, può essere concessa la liberazione condizionale. Non così, però, se l’ergastolo è, appunto, “ostativo”, ossia “di ostacolo” a fruire di ciò che normalmente si ammette per altri, il che accade agli autori di delitti particolarmente gravi (di mafia, ma non solo di mafia), a meno che prestino collaborazione alle autorità investigative o giudiziarie. Corte europea dei diritti dell’uomo e Corte costituzionale hanno condannato l’attribuire un effetto tanto discriminante a una condotta collaborativa che a giudizio di queste Alte Corti, se prestata, non sempre assumerebbe di fatto il valore di un distacco reale dalla delinquenza mentre la mancata collaborazione potrebbe non derivare necessariamente dal mantenimento di legami malavitosi. Cedu e Consulta, nondimeno, pur nel rimettere a una valutazione in concreto le decisioni sulla concedibilità della liberazione, hanno fatto chiaramente intendere che severi criteri di valutazione s’impongano specialmente quando manchi quella collaborazione, il che non può non implicare l’intervento di controlli effettivi a tutto campo, senza che possano avere carattere preminente le sole certificazioni di “buona condotta” carceraria rilasciate dalla magistratura di sorveglianza. Nel 2021 i giudici della Consulta, pur potendo farlo, non si sono però spinti fino a dichiarare, sic et simpliciter, incostituzionale la normativa vigente (a quelli di Strasburgo ciò era ed è addirittura precluso) ma, riservandosi un giudizio a posteriori, hanno dato 18 mesi di tempo al legislatore per elaborare una nuova normativa rispettosa delle indicazioni e delle motivazioni da essi addotte. Cosa che il Parlamento non è riuscito a fare nella scorsa legislatura, interrottasi quando un testo era stato approvato dalla sola Camera.

Alla data dell’8 novembre fissata per constatare il seguito della sua pronuncia, la Corte sembrava dunque destinata a ritrovarsi al punto di partenza, ma le cose cambiano con il decreto legge del governo Meloni, che quel testo ha inglobato con poche modifiche. Formalmente, il compito assegnato al legislatore sembra adempiuto in extremis; tuttavia il discorso non è chiuso. Da un lato infatti, quel testo, da certi punti di vista, potrebbe non rispettare tutte le indicazioni della Corte: lascia perplessi, tra l’altro, il richiedere all’ergastolano “non collaborante” la prova di qualcosa di praticamente impossibile da dimostrare, come la certezza di che non ci siano più contatti tra lui e un contesto di criminalità organizzata.

A dar corpo al timore che si vogliano aggirare piuttosto che attuare le indicazioni della Consulta, è il proposito – che la stessa premier sembra fa suo – di introdurre emendamenti più restrittivi in sede parlamentare di conversione del decreto in legge. Staremo a vedere gli sviluppi, con una sola certezza: prima o poi i giudici costituzionali dovranno pronunciarsi nuovamente nel merito (e stavolta, speriamo, senza altri … rilanci di palla). Quanto alla riforma del processo penale, nella sua quasi totalità sarebbe dovuta entrare in vigore il primo novembre e invece viene differita in blocco alla fine dell’anno. Determinante, secondo quanto ha spiegato lo stesso guardasigilli Nordio, l’unanime “grido di dolore” dei 26 procuratori generali delle Corti d’appello, resisi conto che l’organizzazione giudiziaria non era in grado di fronteggiare, con gli strumenti a disposizione, la transizione dal vecchio al nuovo. Difficilmente contestabile, pertanto, la scelta del ministro. Né merita un’aprioristica sfiducia il suo impegno perché in due mesi almeno l’essenziale vada a posto, rispettando gli obblighi legati al Pnrr. Pure qui sono tuttavia affiorate, nella maggioranza, intenzioni di emendare in Parlamento punti qualificanti della riforma e, forse, di bloccarne l’attuazione anche oltre il 30 dicembre. A correre rischi potrebbero essere specialmente gli incentivi alle alternative al carcere e alla “giustizia riparativa”, la cui immediata attuazione tramite stralcio, non avrebbe verosimilmente comportato grandi difficoltà organizzative. E si sa che queste misure sono espressioni di una concezione della giustizia attenta al principio di rieducatività delle pene (art. 27 Cost.), pur senza rinunciare a difendere società e vittime dei reati e riducendo, anzi, meglio della mera repressione la propensione alla recidiva. Purtroppo esse sono indigeste ai cultori del “buttar via la chiave” delle celle. Con una situazione di crescente drammaticità di vita e di relazioni negli istituti penitenziari, sottolineata in modo sconvolgente dal continuo stillicidio di suicidi, il ministro Nordio – che non si è mai mostrato contagiato da quegli slogan – avrà molto da impegnarsi.