Strappata all’aberrazione del diritto. Adesso Indi Gregory è anche figlia nostra
La bimba malata ora “italiana”: la cura d’ogni vita non può essere abbandonata Ma che giustizia è una giustizia che fa morire una bambina malata in ospedale dove i medici intendono cessare le terapie salvavita, togliendola letteralmente dalle mani dei genitori che chiedono di portarla altrove a cercare altre cure, con in cuore una speranza più grande del dolore? Stava per accadere di nuovo così nel Regno Unito, patria di un diritto che loro chiamano common law, nel quale i precedenti contano come fossero legge o tracce prenotate di sentenze.
E i precedenti, per la storia di oggi e per citare i più noti, sono quelli di Charlie Gard e di Alfie Evans, bimbi lasciati morire (o piuttosto fatti morire, staccando la spina) dopo un disperato braccio di ferro giudiziario dei genitori, ridotti a impotente silenzio. Ogni volta è comparsa nelle sentenze una parola paradossale di bene: il bene del bambino, il suo interesse, il meglio del meglio, il best interest appunto. Così quando questa formula è riapparsa in questi giorni per Indi Gregory, la bimba di otto mesi affetta da una grave malattia mitocondriale e ricoverata al Queen’s Medical Center dell’Università di Nottingham, nel cuore dei suoi genitori è piombata l’angoscia di un presagio di morte programmata. Inutilmente è stata affacciata l’offerta fatta da un ospedale italiano di eccellenza, il Bambino Gesù di Roma, per una rinnovata osservazione diagnostica in prospettiva di nuove cure di sostentamento: l’Alta Corte inglese ha detto di no.
E poi l’appello, un altro no; e poi lo scorrere delle ore verso l’ultimatum fatale. Io non so nulla della malattia mitocondriale, delle sue varianti rare e ultra-rare, e quel che si può fare e sperare lo può dire la scienza. Ma so che la cura d’ogni malato, d’ogni vita non può essere abbandonata: e se giunge al suo esito inesorato per impossibilità di terapia proporzionata, la si accompagna nel suo transito con la delicatezza d’un amore persistente, non come fosse una lampada spenta da un interruttore. Si riproduce ancora, nella vicenda della piccola Indie, l’errore etico e giuridico di una sentenza che si fa arbitra di vita o di morte, con la forza espulsiva di un diritto violento contro i genitori di quella vita. Intendiamoci: un conflitto sulla congruità o impraticabilità di terapie, sul dolore, sui pronostici, sulle prospettive della continuazione o cessazione del sostentamento vitale è pur suscettibile di un giudizio di tribunale, fin che mette a fronte la posizione giuridica dei medici e quella dei genitori.
Può essere che i medici, nel prospettare le ragioni di desistenza, convincano il giudice che essi vanno mandati esenti da un’accusa di omissione di soccorso. Questo potrebbe comportare, al limite, che i genitori si vedano ricusata la richiesta del trattamento sanitario invocato; non che sia loro impedito di chiedere soccorso ad altri ospedali, per giunta già in dialogo e disponibilità; ordinare così è come tenere la bimba in sequestro nel luogo della morte programmata. Come può la parola del bene, del massimo bene, del best interest divenire violenza? Sembra un’intrusione giudiziaria nel crocicchio della deontologia medica e della responsabilità genitoriale. Un intervento che sembra usurpare un tema fuori duello: non più nel recinto della relazione di cura pretesa e negata, che finirebbe col dire nel più tragico dei casi “ci dispiace, non possiamo, non bussate più a questa porta”; ma con la forza scura e soverchiante che decreta “questa porta viene chiusa con dentro la vostra bambina, che non potete più portar via, perché deve morire”.
Qui l’aberrazione, nel mondo del diritto; l’usurpazione di una competenza sulla vita e sulla morte d’un essere umano. Negare il trasloco della cura e il cammino della speranza verso l’ospedale italiano è una ingiustizia che grida. E persino fa rabbia la preoccupazione così premurosa (e pelosa) sui rischi di viaggio. È vero, il rischio c’è; ma meglio il dubbioso viaggio che la certezza della morte decretata. Nelle ultime ore la speranza si è riaccesa, perché l’Italia ha dato a Indi Gregory la cittadinanza, con una iniziativa del governo di toccante sollecitudine. Una fiammella, nel cuore dei genitori della bimba; uno spiraglio inatteso e provvidenziale nelle procedure giudiziarie in corso, ora in sospensione.
Adesso Indi è figlia nostra, Indie è italiana, e la sua cittadinanza è un titolo autonomo per venire fra noi; non è un espatrio, se noi siamo l’altra sua patria. Chissà, speriamo. Speriamo e preghiamo, perché per queste malattie rare ci vuole il miracolo. Ma intanto un po’ di miracolo è già avvenuto per la mobilitazione di pietà e d’amore per questa famiglia provata dal dolore innocente.