L’unico governo possibile, dunque il governo che andava fatto: pieno di facce nuove e seminuove, con la sua dose di usato sicuro, tante donne e molti giovani e, com’era scontato, alcune sorprese (non tutte, per la verità, ugualmente promettenti). Un governo che è impossibile attribuire a una parte sola, e che nessuno può proclamare o sentire “suo”. Un governo che è ragionevolmente il primo e l’ultimo della XVII legislatura, ma che dovrà anche essere l’ultimo della cosiddetta Seconda Repubblica e sperabilmente l’«ostetrico», in decisivo dialogo con il Parlamento e con l’opinione pubblica nazionale, di una nuova Repubblica che preservi il meglio di quella saggiamente pensata e realizzata 65 anni fa e che restituisca equilibrio e armonia a ciò che, in questi anni, è andato smottando e aggrovigliandosi nel nostro ordinamento democratico.
C’è da credere che delineare questo profilo del nuovo esecutivo sia stata la principale preoccupazione di Enrico Letta, consapevole sin dall’inizio del suo percorso da presidente del Consiglio designato che gli sarebbe toccato di dar vita a un governo “con patria e senza bandiere”. Un gruppo di lavoro, cioè, esclusivamente dedito alla fatica di propiziare la “risalita” dell’Italia dal gran pantano della crisi economica e sociale (che distrugge lavoro, fiducia e mina persino le solidarietà di base tipiche della società italiana) e del discredito della politica (che ormai, appunto, intacca le stesse istituzioni). Proprio per questo, il governo Letta non potrà permettersi di fare niente di più di ciò che è indispensabile, inevitabile e condivisibile a quel duplice fine: economia e riforme. Un «niente di più» che è davvero e urgentemente molto. Proprio per questo, in nessuno dei suoi ministri, neanche in quelli portatori di visioni più marcate e controverse, il governo Letta potrà permettersi di servire un qualche interesse di partito e di fazione, ma dovrà apparire orientato a quello che tutti (o quasi) potranno immediatamente e pacificamente intendere come il «bene comune».Avevamo auspicato, pensando a questo, che nascesse un «governo di servizio», e abbiamo visto con piacere che quest’idea è affiorata con chiarezza sulle labbra del premier che si appresta a giurare e a presentarsi al Parlamento. Al di là dei nomi e delle storie dei nuovi ministri, un simile atteggiamento, una simile ambiziosa umiltà ci sembra la precondizione essenziale per dare saldezza e nobiltà, contro la retorica e la pratica (ugualmente meschine) dell’«inciucio», a un’operazione che realizza l’avventurosa e generosa composizione di forze e visioni di sinistra, di centro e di destra che per due decenni sono state quasi sempre non componibili e spesso aspramente contrapposte e che nella recente fase del governo tecnico avevano più subìto che promosso le severe e non più rinviabili politiche di emergenza.Giustamente il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, definisce quello che si è appena formato un «governo politico», obbligato e inedito frutto di «un’intesa politica tra forze parlamentari che, secondo Costituzione, garantiranno la fiducia in entrambe le Camere». È così, è esattamente così. E questo vuol dire che siamo al cospetto di un governo straordinario, nato in condizioni di straordinaria difficoltà, destinato ad affrontare un percorso straordinario e che si giustifica appunto per gli straordinari doveri che gli sono affidati. Che, lo ripetiamo, sono quelli di riconciliare noi italiani con chi ci rappresenta, con la nostra storia e intelligenza civile ed economica, con le regole fondamentali e con le pratiche amministrative dello Stato in cui viviamo. Il tempo a disposizione non sarà prevedibilmente molto. Forse appena un anno, forse un po’ di più. Premier, ministri e partiti dovranno dimostrarsi all’altezza, guardando non solo alle attese dei sostenitori e dei più o meno speranzosi, ma anche ai dubbi e alle ostilità dei prevenuti della prima ora e ai perplessi dell’ultima, che certo non mancano. La sfida è dura, ma le ragioni per onorarla sono molte e incalzanti.