Opinioni

Attentato in Uganda e radicalismo africano. La miope sottovalutazione del «contagio somalo»

Fabio Carminati martedì 13 luglio 2010
È terribilmente preoccupante la miopia occidentale, e in particolare quella europea, che porta a non cogliere il legame diretto tra la situazione somala e l’espansione del terrorismo qaedista dal Corno d’Africa. Lo conferma il devastante attentato di domenica in Uganda, ma i segnali esistono da tempo anche se sembra non vengano percepiti. Così come gli appelli. Tra questi, quelli del ministro degli Esteri italiano Franco Frattini che, all’epoca del sequestro Cicala in Mauritania, aveva denunciato proprio dalle pagine di questo giornale come esista «una fascia del terrore» che attraversa tutta l’Africa a Sud del Sahara e che avrà «ripercussioni anche sull’Europa». Gli americani, dal canto loro, avevano promesso due mesi fa un impegno diretto dopo anni di interventi mirati contro il terrore: una sorta di “strategia di contenimento”. Così, in questa chiave di nuova discesa in campo, era stato letto anche l’annuncio della Casa Bianca dell’estensione delle “operazioni speciali” affidate alle agenzie di intelligence all’estero. Inoltre, Barack Obama aveva preannunciano l’invio di «mezzi ed esperti» per aiutare il presidente somalo Sheikh nel difficile compito di contrastare l’avanzata degli shabaab su Mogadiscio. Stesso scenario poco più a Nord, dove al-Qaeda per il Maghreb, sotto traccia, sta rafforzando la sua penetrazione e i legami con i miliziani somali. Una sorta di alleanza – non ancora provata pienamente a livello di decisioni di vertice – che però minaccia almeno metà del Continente: a partire dalla fascia maghrebina per arrivare fino ai Grandi Laghi, regione in cui domenica si è dimostrata una sconfortante facilità di azione. Sfrondando dai proclami le dichiarazioni di al-Qaeda e degli shabaab somali, resta il fatto che trovare “manovalanza” in una realtà quasi ventennale di Stato fallito come quella somala risulta fin troppo facile. A ciò va poi aggiunta la costante penetrazione di elementi provenienti da realtà calde, quali quelle pachistane, afghane o irachene. Si potrà obiettare che il livello di operatività resta più di “terreno” che di “logistica elaborata”, indispensabile per potere colpire al di fuori del continente, ma è altrettanto inconfutabile che a livello di coordinamento internazionale per contrastare la crescita del fenomeno non si faccia nulla. Né da parte delle Nazioni Unite né, soprattutto, nell’ambito delle potenze occidentali che soltanto dopo l’11 settembre avevano provato a elaborare strategie comuni. Si continua a delegare il compito a realtà poco più che regionali, come la sempre più “affannata” Unione Africana o l’Igad, l’ente orientale di sviluppo africano. I fattori che spiegano questa inazione sono molteplici e hanno certamente implicazioni geopolitiche ed economiche. Le vecchie aree di influenza, soprattutto in alcune ricche regioni africane (Congo, Nigeria..), un tempo vennero ridisegnate dalle guerriglie e, ancor prima, dai movimenti indipendentisti di cui quest’anno si celebra il cinquantesimo anniversario. La mappa africana sta però, ancora una volta, cambiando: vuoi per i legami sempre più forti con potenze emergenti (come quella cinese), che un tempo non puntavano a questi quadranti. E vuoi, soprattutto, per un elemento relativamente nuovo, che si chiama fondamentalismo islamico, etichettato spesso semplicisticamente come “qaedista”, però nei fatti sempre più emergente, tentacolare ed egemonizzante.