Strage in funivia. L'insostenibile leggerezza delle nostre certezze
La cabina bianca e rossa, schiantata a terra e aperta come una scatoletta di latta, compare e ricompare sugli schermi di tv e smartphone. In chi guarda, in tutti, un attimo di silenzio: incredibile, morire così. Nella prima domenica di tempo mite al Nord, e finalmente liberi dal lockdown. Felici, quei dodici avevano preparato gli zaini, e ben coperto i tre bambini. La giacca a vento, certo, se passasse una nuvola. E le mascherine naturalmente, e il gel disinfettante. (Alla partenza, a Stresa, si misurava ovviamente la temperatura, e si distanziavano con cura i passeggeri. Quindici, gli ammessi in cabina).
Era tutto perfetto: un po’ di sole, dei nonni venuti da lontano, un bambino in passeggino, i due più grandi certamente appiccicati ai finestrini, come tutti i bambini in funivia, a guardar giù. Sembra di sentire il chiacchiericcio in cabina, in quella domenica finalmente normale. “Tu hai fatto lo Pfizer? Io l’Astrazeneca, due giorni di febbre…”. E un figlio che comincerà la scuola, e, ad agosto, dove andiamo? Quei due che volevano sposarsi e forse avevano aspettato, per poter fare una bella festa. Com’era tutto sereno domenica mattina, sulla funivia del Mottarone, la gita domestica di lombardi e piemontesi - 1500 metri di dislivello, mica il Monte Bianco.
Poi, cosa è stato? La fune trainante, acciaio più grosso d’ un braccio d’uomo, cede in un feroce schiocco di frusta. I freni, dirà poi la Procura, non scattano, la cabina corre all’indietro, in otto interminabili secondi. Il tempo, appena, di stringersi al bambino, di una preghiera rappresa in un istante, di un urlo. Il tonfo atroce nel bosco, il silenzio.
Tom, appena due anni, e i suoi nonni venuti da Israele. E la dottoressa della Guardia medica, e i fidanzati, e un bambino di cinque anni. L’altro che ancora lotta, in ospedale. Le famiglie della gita al Mottarone, annientate.
Dal Ministero ora dicono di controlli ripetuti, dal 2016 fino al dicembre 2020. Quando le funi erano state esaminate con gli ultrasuoni. “Controlli, verifiche e manutenzione sono tutti a posto”, comunica l’avvocato dell’azienda responsabile della manutenzione. Sapendolo, tutti saremmo saliti su quella funivia ad occhi chiusi.
Ma qualcosa, incredibilmente, non ha funzionato. “Non chiamatele disgrazie”, titola un editoriale del Corriere, sottolineando che certamente la tragedia ha dei responsabili. Probabile: gli uomini sbagliano. Certe volte sbagliano in modo terribile. Per distrazione, o incompetenza, o pigrizia, o per risparmiare. Pensate quanti devono avere sbagliato, per lasciare crollare il Ponte Morandi.
Gli uomini sbagliano, e persino l’acciaio soffre l’usura. Fatica del metallo, la chiamano. Se c’ era, in quella fune, i controlli avrebbero dovuto segnalarla. Invece no. Qualcosa non ha funzionato, qualcuno, forse, pagherà.
Il fatto è però che gli uomini, comunque, continuano talvolta a sbagliare. Il mondo perfetto in cui questo non accadrà più, per quanto progrediscano tecnica e controlli, è un’utopia. Resta il mistero, e lo scandalo, di quei destini tranciati di netto, nello schiocco bruciante dell’acciaio che si arrende.
Perché loro? Quanti di noi sono saliti al Mottarone, quanti volevano andarci magari proprio ieri, ma il bambino aveva due linee di febbre? Davanti a quella funivia sfracellata la reazione più umana, oltre al dolore, è tacere. Non possiamo capire. Appena ci stavamo liberando dell’ombra del Covid, che in quest’anno ci aveva bruscamente costretto a considerare la morte come un’eventualità possibile, e non solo da vecchi. Appena ci stavamo riprendendo, in una domenica di sole, la nostra sicurezza di “prima”. Che schiaffo, la morte in una gita che tutti avremmo potuto fare. Sessanta chilometri da Milano, “alle sei siamo a casa”. E la insostenibile leggerezza delle nostre certezze che torna a interrogarci: non siamo padroni nemmeno di un giorno.
Ammetterlo però ci è intollerabile. Che fare? Consultare oroscopi? Contare su una buona stella? Confessarci la nostra precarietà ci è inaccettabile, se non abbiamo alcun Padre. Cui affidare in pace, ogni mattina, qualunque destino ci aspetti, noi - e soprattutto i nostri figli.