Opinioni

Strage di Paderno. Riccardo e il male assoluto: serve il coraggio di camminare insieme

Maurizio Patriciello martedì 3 settembre 2024

Ci hai spiazzato. Ci hai sbattuto con la faccia al muro. Ci hai costretto a fare i conti con quel mistero ancestrale che da sempre ci accompagna e ci spaventa, il male. Che cos’è? Da dove viene? Per i credenti è una continua sfida. La sfida per eccellenza, davanti alla quale tutto il resto impallidisce. Se il loro Dio è così buono, come dicono, da dove è sbucato fuori questo mostriciattolo che punge e ti avvelena? Coloro che dicono di non credere non nuotano in acque migliori.

Mai come in questo caso, credenti e non credenti, sono tanto affratellati; insieme si arrabattano, farfugliano, si perdono in tavole rotonde, ma i risultati lasciano sempre a desiderare. Se almeno, “caro figliolo” – mi assumo la responsabilità di chiamarti così – se almeno tu fossi arrivato da un paese lontano e sconosciuto, dove i bambini non vanno a scuola e il pane occorre tirarlo con le mani dalle viscere della terra. Avremmo avuto la risposta da dare stamattina al nostro amico al bar: «Vedi? Te lo dicevo? Il problema è politico. È solo politico. Se quelli vogliono la soluzione è a portata di mano». E giù la solita sfilza dei consigli da dare a chi comanda. Se almeno tu fossi nato a cresciuto in uno di quei “non luoghi” dove la gente si accalca, l’imbroglio è all’ordine del giorno, le regole non vengono osservate, la droga scorre come un ruscello in piena, i giovani sono violenti, anche stavolta avremmo potuto imbastire una discussione più o meno decente. L’importanza della cultura, il fascino del bello, l’educazione alla solidarietà. Valori da inculcare. Occorre iniziare dal neonato, o, forse, anche prima, quando il pancione della mamma cresce. Nemmeno questa scappatoia ci hai dato.

Hai avuto tanto. Stormi di ragazzini ti hanno e ti avrebbero invidiato. Folle di bambini hanno sognato e sognano, ogni giorno, di potere essere al tuo posto. Vivevi in una villetta, non in una scatola di cartone alla stazione di Calcutta. La tua cameretta, il tuo telefonino, il tuo computer, i tuoi amici, i tuoi vestiti, i tuoi capricci, le tue fisime, i tuoi studi, le tue vacanze. I tuoi genitori. Tu non sai, non hai mai saputo che vuol dire morire di fame, di sete, di paura. Niente, non ci dai scampo. Nemmeno il solito giochetto di cambiare nome al male, per metterci al riparo, ci riesce. Lo abbiamo fatto tante volte, è vero. In questo alcuni sono dei maestri. “Con la bocca ti legano e ti sciolgono” si dice, dalle mie parti, di coloro che hanno a disposizioni un arsenale di frasi per non dire quello che andrebbe detto con una manciata di parole. “Sia il vostro parlare si si, no no”.

“Figliolo”, tu ci costringi, oggi, a fare i conti con il male nella sua accezione più crudele. Una sorta di male ontologico. Non è la prima volta, certo. Siamo sconvolti. Non riusciamo a trovare il bandolo della matassa. È tutto così assurdo. I tanti perché che da domenica ci arroventano la mente e il cuore, fanno fatica a trovare una pur minima risposta. Per poter albergare dentro di noi, l’odio, al quale mai - e dico mai nella maniera più assoluta - andrebbe dato diritto di cittadinanza, abbiamo inventato mille giustificazioni. Se è riservato al nemico, al diverso, allo straniero, a chi ci ha fatto soffrire, a chi ci ha soffiato il posto di lavoro, a chi ha tradito la nostra fiducia, potrebbe, in fondo, anche andare bene. Per l’invidia, la gelosia, l’indifferenza, la diffidenza, la guerra stupida e assassina, è la stessa cosa. Se provi a dire il contrario sarai tacciato di essere uno sciocco e pericoloso buonista.

Ma nel tuo caso, “figliolo” – e continuo a chiamarti in questo modo – questi veleni che ci avvelenano non avevano motivo di attecchire. Tu ti sei scagliato con una ferocia che spaventa anche il peggiore dei criminali contro le tre persone che più di tutte avresti dovuto amare. Papà, mamma, il fratellino più piccino. La Protezione, la bontà, la tenerezza, l’affetto, l’amore, la sicurezza, il calore. La Famiglia. La casa. La tua famiglia, la tua casa. E noi siamo qua a leccarci le ferite sanguinanti.

Sì, perché quello che sei stato capace di combinare ci mette tutti attorno a quell’ipotetico tavolo per cercare di capire. Senza imbrogliare, però. Senza tentare i soliti giochetti. Senza andare alla ricerca di sotterfugi. Pensando ai tuoi cari che hai sterminato, a te, ai processi che saranno celebrati, al futuro che ti aspetta, al carcere che ti ospiterà, almeno a noi, poveri credenti, viene spontaneo alzare lo sguardo al cielo e implorare: «Liberaci dal male, Signore».

Ci spaventa, ci angoscia, ci distrugge questo male eccessivo, eclatante, feroce, inutile, proprio perché sfugge a ogni analisi razionale e scientifica. Questo male ci fa male. Tanto. Troppo. Per non rassegnarci, per non impazzire, per non morire, per continuare a dare un senso a questa vita di cui sappiamo tanto poco, l’unico modo che abbiamo – tutti, non solo i credenti - è non farci ingoiare dalla cantilena di contumelie, di offese, di maledizioni, che da ogni parte – forse, chissà, anche giustamente – ti stanno piovendo addosso, “figliolo”, e trovare il coraggio, la forza, la volontà di metterci al tuo fianco. E lentamente, faticosamente, caparbiamente riprendere a camminare insieme. Perché “ forte come la morte è l’amore”. In caso contrario, il male che tanto ci fa male, stavolta, avrebbe veramente vinto.