Barcellona. L'armata del terrore, le nostre città: non possiamo assuefarci all'orrore
Una ragazza nella Plaza de Catalunya intona – e, a ragione o a torto, poteva essere altro? – Imagine di John Lennon, attorniata da una folla muta e commossa, dalle fiammelle tremolanti delle centinaia di ceri deposti dalla pietà di una città ferita in un tratto di marciapiede eletto a sede del dolore e del ricordo.
Accade a Barcellona, così come è accaduto a Nizza, a Monaco, a Copenaghen, a Londra, Tunisi, Parigi, Stoccolma, Bruxelles, Manchester, in tanti luoghi in cui la banalità del male ha lasciato il proprio segno. Può sembrare paradossale, ma il pericolo più grave per l’Europa che assiste sgomenta alla replica infinita dei barbari attentati nei confronti della folla inerme non è l’incapacità o la difficoltà di prevenirli: il rischio maggiore per noi sta diventando quello dell’assuefazione. Fenomeno, lo sappiamo, fisiologico: la somministrazione ripetuta di un farmaco (o di una droga) nell’organismo può finire per diminuirne o annullarne gli effetti. In parte lo stiamo facendo anche noi con il terrorismo, incanalando il dolore e la solidarietà in una liturgia scandita da gesti inevitabili e obbligati, che se da un lato ha l’intento di rammentare ai nemici della nostra civiltà che non saranno i loro camion-killer, le loro lame affilate, i loro kalashnikov a cambiare le nostre vite, dall’altro ci sta progressivamente addestrando a un oblio cui è sempre più facile ricorrere, come se tra l’esperienza tragica vissuta e il vulnus che ha prodotto nell’anima e nella memoria non occorresse più che lo spazio di un mattino per deporne il ricordo lontano da noi.
Questa rischiosa assuefazione va di pari passo (sembrerebbe quasi vi sia un nesso, una reazione in qualche modo uguale e contraria) con la mutazione genetica del terrorismo jihadista che ha insanguinato in questi ultimi anni le contrade d’Europa fino a fargli perdere ogni legame diretto con il califfato e con al-Qaeda. Mutazione che con il senno di poi avremmo potuto intravvedere già una dozzina d’anni fa all’epoca dei casseurs francesi, giovani immigrati di terza generazione che incendiavano la banlieue come risposta estrema al disagio sociale nel quale versava (e versa tuttora) gran parte dei maghrebini in terra europea. Ma il passaggio dalla ribellione giovanile degli emarginati del Maghreb, traditi da una società che li tagliava fuori dalla modernità e dal benessere, al germinare insidioso di un radicalismo ammantato di fanatismo religioso si è rivelata un’incubazione di breve durata. Il modello stesso del sedicente Califfato è stato poco più che una suggestione.
Oggi il distacco deideologizzato dalle parole d’ordine del Daesh (che se pure ampiamente sconfitto sul terreno s’intitola puntualmente ogni gesto terroristico, dalla strage sulla Promenade des Anglais al solitario con il coltello che compie la propria intifada di sangue) si traduce in un jihadismo fai-da-te che agisce in proprio, come una force de frappe autoctona di tragica e fumosa ispirazione islamista, dove ai foreign fighters bene addestrati e induriti dalla "campagne" di Siria, Afghanistan, Iraq e Libia si mescolano piccole colonie di giovanissimi nutriti di odio e al contempo indifferenti – al di là dei proclami – a ogni credo. In altri tempi li avremmo definiti "nichilisti", ma il termine ci pare quasi troppo nobile.
Ed è con questa armata delle tenebre, nascosta e incistata nelle pieghe dimenticate dell’opulenta e spesso indifferente Europa, che dobbiamo fare i conti. Sapendo che non bastano più le vecchie e usurate categorie per classificare un fenomeno in continua evoluzione (in fondo, non si comportano così anche i ceppi mutanti dei virus influenzali?) e che i ritardi e le responsabilità nell’aver affrontato il fenomeno sono anche nostre, come nostra – intesa come europei – è stata la colpevole miopia verso i grandi cambiamenti che si affacciavano all’orizzonte. Di fronte ai quali ogni impegno è necessario a condizione di evitare l’unico vero grande pericolo: quello di assuefarsi.