Opinioni

Riforme, rigore e crescita. Strade da battere senza cedere a facili ottimismi

Giorgio Ferrari martedì 11 maggio 2010
Il maxipiano da 750 miliardi di euro varato a Bruxelles dai governi dell’eurozona dopo tre giorni di drammatiche consultazioni ha fatto risorgere nel giro di poche ore ogni possibile indice: da quello delle Borse mondiali a quello della fiducia sui mercati, fino al fragoroso plauso che Washington invia all’Europa e in particolare a Francia, Germania e Italia, protagoniste assolute – senza dimenticare la Spagna, presidente di turno – insieme alla Bce della più vasta operazione politico-finanziaria a difesa dell’euro. Aggredita dalla più selvaggia delle speculazioni (per trovare qualcosa di analogo dobbiamo riandare con la memoria alla spregiudicata operazione di Soros che nel 1992 portò alla svalutazione della lira e della sterlina), la moneta unica europea ha costretto gli Stati membri dell’eurozona ad abbandonare quelli che il presidente Napolitano ha definito «i meschini, indifendibili egoismi nazionali», risalendo di colpo la china che l’aveva portata nei giorni scorsi sotto quota 1,27. Un risultato che verosimilmente non sarebbe stato possibile senza il coinvolgimento diretto della Banca centrale europea, che da oggi – ed è stata una decisione a suo modo storica – è disponibile ad acquistare sul mercato (aggirando così i Trattati che lo vietano) i titoli di Stato dei Paesi in difficoltà. Si parla di 200-300 miliardi di euro, che si andranno ad aggiungere a quelli messi a disposizione dal Fondo monetario internazionale.Non può sfuggire come quella dell’euro sia la seconda grande tappa della crisi internazionale iniziata in sordina nel 2007 con la crisi dei mutui subprime americani ed esplosa l’anno successivo con il collasso dei giganti assicurativi americani, la caduta di Lehman Brothers, la susseguente necessità di dotarsi di regole comuni per uscire dal Far West dei mercati. Dalla lunga notte di Bruxelles emerge un risultato che oltre a configurare la più grande manovra finanziaria della storia europea si riverbera su ogni comparto del Vecchio continente. Da quello finanziario a quello politico, dalla Grecia (che vara il suo piano di austerità con l’ombrello messo a punto dall’Europa) al Portogallo (che grazie al maxipiano della Ue potrà correggere i suoi conti senza temere il default), dalla Spagna (che può finalmente uscire dal medesimo spettro dell’insolvenza), fino a due grandi protagonisti dell’Unione, la Germania e la Gran Bretagna. Le urne hanno punito la Merkel nelle elezioni regionali del Nord Reno-Westfalia: le sue ritrosie, i suoi ritardi, i calcolati egoismi nei confronti della Grecia che affondava non hanno pagato in termini di consenso. Ma la crisi e le sue conseguenze hanno dominato anche le scelte britanniche: quel "no" di Londra al fondo europeo a difesa dell’euro, un rifiuto dal retrogusto thatcheriano da parte di un premier uscente con una sterlina in caduta libera, è quanto di meno europeo e di meno solidale si possa immaginare, dettato forse dal tentativo estremo di rincorrere consensi perduti. Né possiamo escludere che il "gran rifiuto" con il prossimo governo si ammorbidisca.Di tutt’altro segno invece l’impegno italiano in questa vicenda. Il nostro Paese è tornato protagonista insieme a Berlino e Parigi, offrendo il meglio di sé, ovvero la capacità di mediare, suggerire, convincere. Ne siamo usciti con rinnovato prestigio e di ciò l’opposizione dovrà tener conto, quando si tratterà di varare la manovra di sostegno per cui ci siamo impegnati. Perché, come ammonisce il presidente della Bce Trichet, l’errore capitale sarebbe «quello di cedere all’ottimismo prematuro». Il nostro compito, dell’Italia, dei grandi e dei piccoli Paesi, viceversa è uno soltanto: il rigore dei conti pubblici, la dritta via delle riforme, la lotta agli sprechi, la crescita sostenibile. Un’idea cioè di Europa – quella dei cittadini – come la si immaginava cinquant’anni fa. Prima che una finanza senz’anima tentasse di impadronirsi del suo cuore.