Opinioni

Scintille di bellezza. L’Iliade rivive nel cuore di Irene. «Amare è lasciare andare»

Marco Erba martedì 3 ottobre 2023

Una raffigurazione antica dell’eroe omerico Ettore insieme con la madre, Ecuba, moglie di Priamo, re di Troia. La sua vicenda è narrata nell’Iliade

Irene è stata adottata, è arrivata in Italia da un Paese dell’Est quando aveva tre anni. Lo dice apertamente a tutte le compagne e i compagni della prima liceo. Lo dice a me e a tutti i prof, decisa, forse fin troppo; forse tutta quella decisione è uno scudo per difendersi da domande indiscrete.

Irene ha fame di vita, in classe fa mille domande, interviene spessissimo, ha sempre la mano alzata. Irene ama la musica di ogni tipo: adora soffermarsi sui testi delle sue canzoni preferite, tradurli, sviscerarne il significato. Epica le piace molto: trova quegli eroi così lontani estremamente vicini; lo si legge nel suo sguardo sempre concentrato a ogni lezione, quando corruga la fronte sotto il caschetto di capelli corti.

La sua famiglia è molto presente. Il papà si prenota per uno dei primi colloqui, mi racconta la storia della sua famiglia, dell’adozione di Irene, che è figlia unica. «Non ci ha mai dato problemi – dice –. È una sempre sul pezzo. Ci confrontiamo serenamente su tutto. Però... però adesso quella domanda le ronza dentro. La domanda sulle sue origini, sui suoi genitori biologici, che sono un mistero per tutti noi. Un mistero che rimarrà, ma che la tormenta, anche se non lo dice. Io però la conosco troppo bene. Del resto, è mia figlia».

È mia figlia. Lo dice con una certezza assoluta, che schiude un universo. Una certezza che mi fa venire la pelle d’oca. Lo capisco, quel papà, perché anche io ho un figlio in affido. E capisco da chi Irene ha preso quel suo modo di fare deciso: è tutta suo padre.

Il papà di Irene mi saluta stringendomi la mano. «Quella domanda esploderà, vedrà. Magari in una delle sue ore, visto che a Irene l’epica piace così tanto».

Le cose vanno proprio come il papà di Irene ha ipotizzato. La domanda esplode prepotente durante una lezione sull’Iliade. Stiamo leggendo un brano che precede lo scontro tra Ettore e Achille. Ecuba, madre del troiano Ettore, lo implora di non scendere in battaglia contro l’eroe acheo perché teme che resterà ucciso. Lo prega chiedendo di avere pietà di lei, che sarebbe distrutta dal dolore se il figlio morisse. Mostra a Ettore il seno con cui, quando l’eroe era bambino, lei lo ha allattato. Il seno, segno dell’unione indissolubile tra madre e figlio, segno della cura che sancisce un legame eterno.

Di fronte a quell’immagine, Irene si incupisce all’improvviso. Alza la mano: «E se uno non è stato allattato al seno? Il legame è meno forte?», chiede. Mi prende in contropiede; le dico che ovviamente no, non è così. Lei non insiste, la butta sullo scherzo: «Se uno per esempio è stato allattato col biberon?».

I compagni ridono, anche Irene sforza un sorriso. Ma l’espressione cupa le resta. Capisco che non è il caso di insistere.

Il pomeriggio Irene mi scrive una mail: «Scusi, prof, se ho banalizzato la scena della madre di Ettore. Mi ha molto commossa, mi creda». «Lo so – rispondo –. Se vuoi confrontarti su qualsiasi cosa, ci sono», aggiungo.

Lei mi ringrazia.

La mattina dopo mi saluta con uno sguardo di intesa, ma non mi parla più dell’argomento. Che però le resta dentro: lo vedo dai suoi occhi, dalla sua agitazione crescente, dalla sempre più marcata insofferenza, che non può essere spiegata solo con il caldo più afoso e con la fine dell’anno che si avvicina. Il suo look cambia: da corti, i capelli diventano rasati quasi a zero, il trucco si appesantisce, l’abbigliamento vira verso il dark. Il rendimento scolastico cala, le domande in classe diminuiscono: Irene si chiude in se stessa, è spesso distratta.

Arriva l’estate. Dalla fine della scuola all’inizio dell’anno successivo, Irene non mi scrive, non so più nulla di lei.

Il primo giorno di scuola della seconda superiore è una festa un po’ scomposta: i ragazzi rientrano più cresciuti in soli tre mesi di quanto potessi aspettarmi; si ritrovano, ci ritroviamo; c’è una bella energia nell’aria.

Alla fine dell’ora, mentre sto per uscire, Irene mi affianca: «Tenga, prof. Quest’estate, una notte, ho scritto questo per lei. Mi aveva detto che se avessi voluto confrontarmi, lei ci sarebbe stato. Non voglio confrontarmi, voglio solo condividere questo. L’ho scritto in una notte in cui le domande erano troppe: sono uscita, ho passeggiato lungo il mare calmo e appena rientrata mi sono messa a scrivere». Mi ritrovo un foglio piegato tra le mani, mentre già Irene è tornata al posto, già la collega dell’ora successiva entra in classe.

Infilo il foglio in tasca.

Nel pomeriggio lo leggo con calma. Parole come una rasoiata. Come un balsamo. «Io non sono stata allattata da nessuno. Sono stata messa in una culla tra tante altre culle, in un grande stanzone, a piangere da sola, senza che nessuno venisse, se non qualche inserviente, una volta ogni tanto. A volte mi legavano. Certi flash di cose che hai vissuto ti restano dentro, come un marchio a fuoco. Ti si imprimono chissà come nei ricordi, rinascono negli incubi. Ma io sono stata fortunata, perché due persone sono venute a strapparmi da quell’inferno. Una mamma e un papà, che mi hanno regalato la vita, perché mi hanno generata di nuovo».

Mi fermo, sorpreso da un ricordo: il nostro bambino in affido che, a quattro anni, un mese dopo essere arrivato a casa nostra, sdraiato nel lettone tra me e mia moglie, ci guarda alternativamente e dice «mamma, papà; mamma, papà». E ci regala l’incredibile emozione di diventare genitori; come Eva e Adamo, che dando un nome alle cose donano loro un’identità, conferiscono un senso. Ecco, io sono diventato padre lì, con quelle due sillabe pronunciate da quel bambino venuto al mondo per segnare per sempre il mio destino. E quando è nata una bambina dalla pancia di mia moglie, un anno dopo, lei è stata la seconda figlia: così l’ho percepita fin dal primo sguardo. Aveva un fratello che l’aspettava.

Le parole di Irene, col loro profumo di mare, fanno montare quei miei ricordi come una marea; mi insegnano una volta di più che essere genitori è questione di amore, di dono, di accoglienza; non di sangue, di poppate e di Dna.

Ma Irene ha scritto anche altro. Qualcosa di immenso: «Per anni ho odiato la donna che mi ha partorito e poi abbandonato. La ritenevo una persona spregevole, non la consideravo mia madre. Il solo pensiero di lei mi infastidiva, cercavo di evitarlo. Invece adesso ho capito che anche lei, in qualche modo, mi ha fatto un dono immenso. Non so perché ha deciso di rinunciare a me. Forse lo ha fatto perché si rendeva conto di non riuscire a occuparsi di me; forse, soffrendo atrocemente, ha preferito affidarmi ad altri per darmi una chance che con lei sarebbe stata impossibile. Per questo la devo ringraziare; perché, in qualche modo, il suo è stato un gesto d’amore. Amare non è tenere per forza qualcuno con sé perché con lui stiamo bene. Quello è possesso, non amore. Amare è volere il bene dell’altro a tutti i costi, anche a costo di perderlo. Amare non è trattenere, amare è lasciare andare».

Ho pensato molto a quelle parole in questi anni. Ci penso anche adesso. Quel bambino in affido che stava nel lettone tra me e mia moglie è diventato un giovane uomo, quella bambina nata dalla pancia di mia moglie è diventata un’adolescente, e ai due si è aggiunto un terzo. Ogni volta che mi scontro con loro, coi miei figli, ogni volta che non ci troviamo d’accordo, ogni volta che non la vedono come me, provo a ripetermelo: amare è lasciare andare. E, grazie all’insegnamento di Irene, provo a lasciare spazio ai miei figli, perché siano chi vogliono essere, non chi io desidero che siano.