Il legame tra i Papi. E un’evidenza: le persone non sono 'casi' Un Papa 'senza norme' che rischia grosso? Su questo tema si sta sviluppando da qualche tempo – sui rispettivi blog – un dialogo a distanza tra il teologo Andrea Grillo e il giornalista Aldo Maria Valli. Può essere forse non inutile portare qualche elemento di ulteriore riflessione, non da teologo né da giornalista, ma da storico (e da storico dell’educazione) quale sono. Il dissenso dal teologo e dal giornalista sta appunto nella lettura storica: quella che entrambi – pur poi con valutazioni opposte – propongono è una netta frattura tra papa Ratzinger e papa Bergoglio. A me pare invece che i due pontificati, certo molto diversi (come è diverso, per esempio, e pensando ai loro nomi, san Benedetto da san Francesco), siano in una continuità storica, come risposta alla sfida che il XXI secolo porta al cristianesimo: sfida che ha un volto teorico (il nichilismo postmoderno) e un volto sociale (l’individualismo neoliberista). Entrambi i Papi hanno illuminato con la fede l’umanità contemporanea (come plasticamente mostra la
Lumen fidei scritta «a quattro mani», ancorché firmata dal solo Francesco): Benedetto XVI ha dato l’indicazione della risposta al nichilismo (
Deus caritas est: Dio è amore); Francesco ha sviluppato l’insegnamento sul piano sociale (Fedeltà al Vangelo per non correre invano:
Evangelii Gaudium, cap. IV). Il primo ha fatto brillare lo splendore del
kerygma, anche con la sua umiltà personale (fino alla rinuncia al pontificato); il secondo ha reso evidenti le conseguenze comunitarie e sociali del
kerygma, anche con il suo personale calore umano. Per entrambi sono importanti teologi come Guardini (con la sua riflessione sulla coscienza) e Rosmini. In entrambi c’è una grande vicinanza alla sensibilità mistica (per Francesco nel senso della grande mistica gesuitica, soprattutto del Seicento francese) e perciò alla forza della vita interiore: più 'cherubica' per Benedetto e più 'serafica' per Francesco, si potrebbe dire, riferendosi alla storia della spiritualità. Se questa impostazione storica è vera, come credo, allora si capisce meglio come ad aprire un processo riformatore, di ripresa del Vaticano II, sia stato papa Ratzinger, con l’ultimo Sinodo da lui presieduto (quello che ha poi portato alla
Evangelii Gaudium), in cui si è parlato di uno
tsunami che si è abbattuto sulla Chiesa e si è constatata, con franchezza, la grande difficoltà attuale della trasmissione della fede alle nuove generazioni. C’era (e c’è) un problema: un caso serio. Ratzinger si è speso al massimo e poi ha passato la mano a Bergoglio, che ha preso il nome – programmatico (e amatissimo da noi italiani) – di Francesco. Se francescanesimo e gesuitismo si danno la mano è segno che un grande e vastissimo radicamento nella storia della Chiesa (e soprattutto della sua spiritualità e del suo dinamismo missionario evangelico) è stato chiamato in causa: questo sta facendo papa Francesco, il primo papa gesuita. Non credo che sia una giusta interpretazione storica del pontificato bergogliano che porta a parlare di «rischio dell’indeterminatezza e del sentimentalismo», e a sostenere che nella sua visione «non può esserci una norma universale, vincolante per tutti, e che la Chiesa deve procedere, nella sua valutazione, caso per caso». Paradossale è poi affermare, come è stato fatto, che papa Francesco «non sembra interessato alla questione della verità». Ovviamente per Francesco la verità è Cristo: e di Cristo, da innamorato di Cristo, il Papa parla continuamente. Cristo è la verità, ma è anche via e vita. La norma universale, vincolante per tutti coloro che si dicono cristiani, è il Vangelo e non può essere altro. Cristo è la via. Vi è una via eucaristica: farsi carne e sangue della storia, contemplando la carne e il sangue di Cristo, desiderando di nutrirsi di lui, per Cristo, con Cristo e in Cristo. Ecco la legge eucaristica (
lex orandi, lex credendi). Ma Cristo verità e via è anche vita reale. E nella vita reale noi, se siamo cristiani, vediamo il volto di Cristo nei suoi piccoli, nei poveri, nei sofferenti, nella loro personale singolarità, uno per uno (non «caso per caso»: persone non 'casi'). Ma chi vede Cristo vede il Padre. Dunque la centralità del povero (del povero reale, in carne ed ossa, secondo le povertà di oggi), nella vita concreta del cristiano, porta al cristocentrismo e infine al teocentrismo più radicale. Se Cristo e il suo Vangelo sono la verità e la norma, sono anche la via – ecco la misericordia – per trasformare evangelicamente la vita del cristiano. Questo è tanto semplice da capire quanto difficile da attuare: con una battuta potremmo dire che è molto difficile convertire noi cattolici al cristianesimo. Ed è difficile il compito educativo. Non perché, lo abbiamo detto, manchi la norma: ma perché mancano i maestri che siano anche testimoni, come diceva Paolo VI e come ripete Francesco. L’evangelizzazione come annuncio di liberazione e come educazione delle coscienze richiede autorità educatrici: ma queste sono credibili se vivono ciò che annunciano e se si coinvolgono con i loro 'educandi' nel medesimo cammino di liberazione (che siano genitori o che siano preti, che siano teologi e giornalisti e storici, che vogliono educare, o che sia il Papa).