Quando nella primavera del 1899, due settimane dopo l’udienza da papa Leone XIII che la volle missionaria "non a Oriente, ma ad Occidente", un’esile ma decisa suora della bassa milanese, Francesca Saverio Cabrini, s’imbarcò la prima volta per gli Stati Uniti, in quel Paese si trovavano già circa 800 mila immigrati italiani, dei quali poco meno di 100 mila non avevano ancora quattordici anni. Vi erano giunti in gran parte dal Veneto e dal Meridione a ondate di alcune decine di migliaia ogni anno, intensificatesi a partire dagli anni ’70 dell’Ottocento. Allora come oggi, al trasporto dei migranti venivano assegnate fatiscenti carrette del mare che percorrevano un rotta di oltre 4mila miglia, tredici volte superiore a quella tra le coste libiche e la Sicilia. Piroscafi in disarmo, i "vascelli della morte" potevano contenere fino a 700 persone, ma ne caricavano più di mille. Molti italiani perirono in quei tragici viaggi della speranza: tra gli altri, circa 600 nel naufragio dell’«Utopia» del marzo 1891, davanti al porto di Gibilterra, e altrettanti in quello del «Bourgogne», al largo della Nuova Scozia, nel luglio del 1898. La traversata, in media di tre settimane, non era una crociera transatlantica: «Ammonticchiati là come giumenti sulla gelida prua mossa dai venti [...] carne da cimitero vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti» (Edmondo De Amicis, 1901). Stivati in condizioni prive di igiene, alcuni di questa «tonnellata umana» – così venivano chiamati dagli ufficiali di bordo – non sopravvivevano al viaggio: nel dicembre 1888, la nave «Frisia», che trasportava quasi duemila migranti, contò 27 morti per asfissia e oltre 300 malati di colera, morbillo e difterite. Prima dell’istituzione del Commissariato per l’emigrazione (1901), ad instradare le partenze erano faccendieri di agenzie private senza pietà: per un viaggio esigevano 235 lire da un bracciante che ne guadagnava meno di una al giorno, abbandonandolo per giorni sulle banchine dei porti di Genova, Napoli, Messina e Palermo. Giunti a New York, ad attendere i nostri connazionali non era la benestante isola di Manhattan, ma quella misera di Ellis, dove era allestito il centro di ispezione (medica e legale), identificazione ed espulsione. Al termine degli umilianti controlli venivano separati su tre scale: quella centrale per i trattenuti e gli espulsi e due laterali per chi poteva lasciare il centro. I primi, in attesa di provvedimenti, dovevano restare anche per settimane nell’"isola delle lacrime", ammassati in dormitori di 60 brande a castello e con un solo bagno. Al suo arrivo in America, madre Cabrini era stata preceduta da Pietro Bandini, un religioso inviato dal vescovo di Piacenza, il beato Giovanni Battista Scalabrini, a nome della Società San Raffaele da lui fondata, che riuniva uomini e donne dedicati ad assistere i migranti e a proteggerli da quanti speculavano sulla loro miseria, additati pubblicamente come «sensali di carne umana, che non rifuggono dal ricorrere ai più sordidi mezzi» per sfruttare l’indigenza e ai quali occorre «muovere una guerra implacabile» (parole poco diplomatiche quelle del vescovo Scalabrini, ma certo efficaci per scuotere l’indifferenza dei governi di allora, in Italia e negli Stati Uniti, ed anche di una parte dell’episcopato dei due Paesi). Nel solo primo anno di attività al centro di identificazione di Ellis Island, padre Bandini e i suoi collaboratori giunsero ad assistere materialmente e spiritualmente 20 mila sbarcati. Non meno intensa fu l’attività di santa Cabrini, che si adoperò per favorire l’integrazione e il miglioramento delle condizioni di vita e di salute degli immigrati e la crescita, la formazione culturale e l’educazione religiosa dei loro figli, convincendo gli italiani più ricchi ad aiutare i migranti più poveri. «Se per ogni povero è difficile la vita – scriveva – doppiamente lo è per l’emigrato, in paese straniero». Si prese cura dei carcerati italiani impossibilitati a difendersi e fece riaprire dei processi ingiusti nei loro confronti. Consapevole di svolgere una supplenza rispetto ai compiti delle istituzioni e al dovere di solidarietà di ogni cittadino – opera cui la Chiesa, per la sua vocazione alla carità, non può sottrarsi –, madre Cabrini non rinunciò a dire apertamente che «non ci si libera di un essere umano dandolo in bàlia alle suore per lavarsi la coscienza». Donna moderna e dinamica, consapevole che «la vita è breve» e Gesù «fa tanto in fretta a fare le cose», la Cabrini incarna l’urgenza della carità: «Oggi – annotava durante un viaggio – è tempo che l’amore non stia nascosto, ma diventi operoso, vivo e vero».(4 - continua)