Opinioni

Il dilagare del turpiloquio, possibilità e necessità di resistere. Stop al neovolgare

Giorgio De Simone giovedì 26 aprile 2012
Ci siamo abituati perché nella vita, dicono, ci si abitua a tutto. Ma per chi è nostalgico cultore del parlar garbato non è facile. Il turpiloquio, il suo dilagare: parliamo di questo. «Viviamo tempi così», mi disse una volta (più di trent’anni fa), padre Turoldo. Brutti tempi allora, figuriamoci oggi. La domanda che mi faccio è: perché mettersi addosso un vestito sporco quando ci sono gli abiti puliti? So la risposta: «Ma perché così va il mondo. E se tu non ti adegui sei un bacchettone fuori tempo». Così quelle che una volta si chiamavano "parolacce" sono state, come si dice, sdoganate. Una dopo l’altra fino a formare, tutte insieme, il neovolgare quotidiano. Linguaggio da angiporto lo si chiamava un tempo, ora è lingua comune. Le intercettazione, per esempio, sulle varie disonestà pubbliche e private. Ce le fanno ascoltare e sentiamo le volgarità traboccare come da un canale di scolo. Imbrogli, raggiri, frodi, combinazioni truffaldine, tutto è avvolto in un linguaggio imprecante, ingiurioso. E fosse confinato lì, nel malaffare, e in pochi altri luoghi per così dire appositi, il turpiloquio. Ma no, è dappertutto e tocca ogni giorno nuove punte, supera ogni giorno altre barriere. Era impensabile fino a ieri sentire una deliziosa giornalista (o conduttrice) televisiva che, citando quanto detto dal furfante A al furfante B, si fa uscire di bocca parole inurbane come fossero vocaboli correnti. A dire, peraltro, come la nostra sia una tivù che in questo si è perfettamente adeguata ai tempi e, più ancora, ai modi. Ma non c’è solo la tivù. I giornali, tutti i giornali cosiddetti laici, anche loro sono finiti nel calderon scortese. Qualche opinionista chiamato in causa, non volendo certo esser preso per picchiapetto, ha suggerito di non formalizzarsi perché non conta come si parla, ma cosa si dice. Certo, come no? E però la forma, da che mondo è mondo, influenza la sostanza. Personalmente, tra le conseguenze del parlar male ne fisserei tre. La prima: la nostra lingua, già impoverita da slang giovanile, lessico da Sms e anglismi di vario genere, si svilisce sempre di più. Penalizzato già di fronte a tanti altri idiomi, l’italiano si riduce a un glossario rinsecchito, malamente anglicizzato e maculato di volgarità. Secondo: il turpiloquio toglie aria, spazio, senso, importanza all’educazione. La buona formazione comportava, pretendeva il benparlare. Oggi educazione e formazione della persona sono difficili anche perché c’è acquiescenza e conseguente assuefazione alla volgarità. Terzo: il turpiloquio depista tanti giovani che avrebbero bisogno di essere ben altrimenti indirizzati. Il lasciarlo correre, per esempio, da parte dei genitori, significa abdicare al proprio ruolo, favorire la corrosione dei rapporti familiari, minare il reciproco rispetto. Vero è che, se l’interno riflette il fuori dove 'nevica la storia', il turpiloquio entra in casa anche con il linguaggio di amati comici, con quello 'aperto' dei romanzi, con i dialoghi del cinema. Quando fecero osservare a Christian De Sica come nei suoi film ci fossero troppe parolacce, l’attore rispose che avrebbe cercato di metterne un po’ di meno. Come dire: quelle sono il sale dei nostri banchetti di Natale e non vi si può rinunciare, al massimo si vedrà di non esagerare. Che molto, poi, molto se non tutto questo turpiloquio viene da sessomania e sessodipendenza, come dire le linee guida di certi film e di tanta comicità televisiva.Ci sono cento sinonimi di "arrabbiato", ma si usa sempre e solo quello che deriva dall’organo di riproduzione maschile. E cento sono i modi di mandare uno a quel paese, ma a essere tirato in ballo è sempre il più volgare. Ora che questo malparlare possa essere figlio di grandi frustrazioni, nel senso che uno non ce la fa e si sfoga ricorrendo al trilussiano «quanno ce vo’ ce vo’», può essere, non lo so. Quello che so e che vedo è lo sfiancarsi progressivo del nostro linguaggio, dunque del nostro vivere insieme, sotto gli attacchi del neovolgare. Ci s’impoverisce anche così. Prima il vocabolario minimo per mettere in piedi una conversazione era di duemila parole, poi è diventato di mille, adesso non supererà le cinquecento: metà delle quali, neanche a dirlo, parolacce.