Il direttore risponde. Il nostro stile e quel «metodo» nell'Italia di un anno dopo
Paolo Rosellini, La Spezia
Ognuno di noi giornalisti, caro dottor Rosellini, ha il suo stile nel fare cronaca, nell’esprimere opinioni sui fatti, nel valutare l’operato e le intenzioni di chi rappresenta le istituzioni e di singoli politici (di maggioranza e di opposizione), nel richiamare i valori che ritiene di affermare e difendere. Avvenire – da sempre, e con particolare cura nella stagione della cosiddetta Seconda Repubblica – fa tutto questo alla sua maniera: chi ci lavora è impegnato a cercare di coniugare incisività e misura, rispetto della realtà e idealità. Altre testate – dei più diversi orientamenti – usano l’approccio e i toni che preferiscono o, di volta in volta, ritengono più opportuni. Non tutti mi piacciono. Non tutti li condivido. E, così come non impongo i miei, non sono tenuto a riconoscermi in essi. Anche quando vengono usati da giornalisti e su testate – come Famiglia Cristiana – a cui da cattolico sono affezionato, di cui da collega ho grande stima e da direttore di Avvenire assoluto rispetto.È vero, poi, che un certo modo di fare giornalismo e certi toni (l’ho detto e scritto più volte su Avvenire e in pubbliche sedi di dibattito negli ultimi dodici mesi) sono, per me, sbagliati e a volte, persino, insopportabili. Quelli del Giornale diretto da Vittorio Feltri finiscono con impressionante frequenza in queste categorie. Ma ognuno – lo ripeto – ha il suo stile e interpreta a suo modo i diritti-doveri della libera stampa. E, ormai da tempo, ci troviamo su una china niente affatto esaltante, tant’è – arrivo a dire – che finché ci si limita al cattivo gusto e all’insolenza siamo di fronte, tutto sommato, a un male minore.Un anno fa, infatti, fummo tutti testimoni di ben altro da parte della testata e del direttore appena citati: un’ossessiva aggressione a colpi di grossolane falsità (poi ammesse dallo stesso incauto e feroce accusatore) contro Dino Boffo, grande direttore di giornale e persona specchiata e generosa, che – contro il parere e le insistenze dei suoi collaboratori e del suo editore – decise di protestare dimettendosi e chiedendo, per prima cosa, giustizia al suo e nostro Ordine professionale. Quando si parla di “metodo Boffo” – e se ne sta parlando troppo e a sproposito – bisognerebbe essere perciò rigorosi e corretti. Tenere, cioè, bene a mente che quel cosiddetto “metodo” consiste nell’uso di carte false contro qualcuno (è l’onorevole Stracquadanio che ha cercato, invece, di “nobilitarlo” presentandolo come una legittima campagna per far dimettere una personalità). Le dimissioni sono state, nel caso di Dino, la protesta e il danno di chi ha subìto la diffamazione, non certo il successo di chi l’ha sviluppata. Anzi, se le regole della nostra professione hanno ancora senso e forza, so che quelle dimissioni-lezione umana e civile saranno la causa della sconfitta di chi ha violato leggi e deontologia. Il “metodo Boffo” – insomma – è un misfatto, perché significa usare la stampa per fare del male in modo consapevole e violento. Ricordiamocelo.Ecco, gentile amico, su ognuno di noi cronisti grava il peso del giudizio dei lettori e – se e quando norme e limiti vengono calpestati, come nel caso dell’attacco al mio predecessore – degli altri nostri giudici naturali.Io, per quel che so e posso, considero un dovere mantenere saldo – in continuità con la sua bella e libera tradizione – lo stile del «giornale di tutti i cattolici». Che consiste – e vengo a un punto che sta a cuore a lei quanto a me – anche nel dire con chiarezza e tutta la possibile tempestività le cose che vanno dette. Altri hanno fatto conoscere la loro opinione e i loro autonomi obiettivi polemici il 24 agosto, io ciò che avevo da scrivere a proposito delle regole costituzionali e dei rischi che l’attuale incerta fase politica fa incombere sul Paese (che ha bisogno di certezza di governo, di correttezza, di istituzioni rispettate e salde) l’ho messo in prima pagina il 17 agosto, commentando – a crisi virtuale aperta – un’importante nota diramata dal presidente della Repubblica. Quella era l’occasione giusta per farlo. Francamente una settimana dopo non ho visto motivi per tornare sull’argomento già trattato. Il presidente del Consiglio non evocava più le urne d’autunno ed era impegnato (lo stavano scrivendo tutti i principali quotidiani, Avvenire compreso) a evitare il collasso della legislatura, la crisi virtuale appariva già avviata a finire (almeno per un po’) tra parentesi, erano tornati in primo piano i nodi programmatici essenziali e, per di più, proprio sulle pagine di questo giornale si stava sviluppando un importante dialogo trasversale sui punti chiave di un’«agenda bioetica» di lavoro per i prossimi mesi.A mio avviso era ed è importante, anzi prioritario, annotare e commentare tutto ciò. Questo abbiamo fatto e continueremo a fare. La ringrazio per il dialogo e per gli auguri di buon lavoro.(mt)