Il caso serio delle unioni civili tra diktat e insolenze. Spazio di coscienza e «partito della nazione»
Il caso serio delle unioni civili tra diktat e insolenze Caro direttore, il dibattito in corso sul cosiddetto ddl Cirinnà suscita alcune riflessioni su temi non direttamente attinenti alle «unioni civili», ma alle modalità dell’agire politico, con particolare riferimento a chi in politica cerca di starci da cattolico. La prima riflessione riguarda il braccio di ferro in corso al Senato sull’esercizio della libertà di coscienza, con i diktat del capogruppo del Pd Zanda e una contrattazione che mi appare francamente inaccettabile. Premesso, infatti, che il primato della coscienza, non solo nei parlamentari, dovrebbe valere sempre e comunque, è la Costituzione che garantisce ai parlamentari piena libertà di mandato. Se ciò non bastasse, è lo stesso statuto del Pd ad assicurarla, almeno per i temi aventi rilievo etico, quale indubbiamente è la famiglia.
Con evidente degenerazione del sistema, pare invece che la coscienza debba essere oggetto di contrattazione, da misurare a peso, magari per condizionarne l’uso con ipoteche sulla rieleggibilità. La seconda riflessione riguarda il ruolo del governo. Malgrado si continui a dire che il ddl sulle unioni omosessuali è un tema di iniziativa parlamentare e ad asserire una pretesa neutralità del governo, è sempre più evidente che le cose non stanno in questo modo. L’interventismo del presidente del Consiglio e di alcuni ministri è sotto gli occhi di tutti.
A dimostrarlo ancora una volta, vi è l’intervento effettuato ieri dal ministro della Giustizia Orlando durante il dibattito. Se tuttavia l’equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio, contenuta negli articoli 2, 3, 4 e 6 del ddl Cirinnà, è diventata qualificante per il governo Renzi, allora occorre ripensare le ragioni che sostengono l’alleanza di governo. Nel programma di governo, infatti, le unioni civili non c’erano e questo cambiamento è fonte di disagio non solo all’interno del Pd, ma anche per alcuni che, come il sottoscritto, fanno parte di forze politiche che sostengono il governo. Certamente il doppio ruolo di premier e di segretario di partito rivestito da Renzi non aiuta a distinguere e non favorisce la neutralità del governo. Renzi vuole portare a casa il risultato e vuole farlo in fretta, possibilmente prima delle amministrative.
Gli serve per ricompattare a sinistra una componente interna che ha maldigerito il Jobs Act e la riforma costituzionale e tenere saldo un partito disorientato dalle nuove alleanze con i verdiniani e dalla prospettiva del 'partito della nazione'. Infine, le tensioni interne al Pd e lo spazio di manovra ridotto concesso a coloro che vengono chiamati dalla stampa cattodem e spregiativamente definiti dalla senatrice Cirinnà «retrogradi» e «oscurantisti» (senza che la segreteria del partito l’abbia mai richiamata) portano a interrogarsi sulla reale possibilità di convivenza di culture diverse all’interno del Pd, convivenza che era uno degli elementi fondanti che ne avevano sostenuto la nascita.
Finita l’epoca delle ideologie, resta tuttavia la domanda se, in politica, sia finita anche la stagione del confronto delle idee e se le aggregazioni presenti in un grande partito possano essere tollerate solo in quanto espressione del riferimento all’uno o all’altro degli esponenti e alla competizione interna per i ruoli di potere. Se viene a mancare la libertà del confronto tra le culture politiche e la speranza di una feconda complementarietà, quale speranza rimane per il superamento dell’attuale forma partito e per la sua trasformazione in un cantiere democratico? Soprattutto in presenza di una legge elettorale come quella recentemente approvata, si corre il rischio che resti solo lo spazio per un 'partito della nazione' ritagliato su misura per essere partito del leader.