Botta e risposta. «Solo sacrifici, non è lavoro dignitoso». Oltre al pane vogliamo rose
Gentile direttore,
io so perché, anche quando il lavoro non è sinonimo di dignità, ci sono persone che silenziosamente vanno avanti lo stesso, senza protestare, senza ribellarsi… Non c’è spazio e tempo nella loro vita per alzare la voce. Non possono permetterselo. Non possono permettersi di perdere ore di lavoro già precario, ore che possono aggiungere pochi spiccioli a quei pochi che guadagnano perché, anche quei pochi soldi in più, possono fare la differenza. Sono solo persone impegnate a cercare di sopravvivere, persone che non possono permettersi di sprecare energie per far sentire la propria disperazione. Ma una disperazione ignorata non è una disperazione inesistente. Quando un lavoro può definirsi non dignitoso? Ho pensato alla mia vita, mi sono guardata da lontano, e ho visto una donna che non compra un libro ormai da anni, che non va al cinema, non va al teatro, non va in vacanza, non va in pizzeria, non va dal parrucchiere… Quali bisogni umani deve soddisfare il lavoro? Davvero si può pensare di vivere di solo pane? Può un essere umano riempire una pancia, senza riempire un’anima? Io so perché la nostra è una generazione imbruttita, una generazione a metà, una generazione sospesa tra bisogni primari da raggiungere e bisogni voluttuari irraggiungibili. Ma può definirsi voluttuario il bisogno di arricchire la propria anima? Io penso di no. Ma intanto domani mattina quelle persone riprenderanno la loro marcia silenziosa alla conquista del loro tozzo di pane quotidiano, come se non avessero il diritto di pretendere di più.
Carmela Di Carlo
Non è semplice, gentile signora Di Carlo, rispondere alle sue accorate e amare considerazioni, come mi chiede il direttore. Su una questione preliminare, però, non sono d’accordo con lei. Non c’è lavoro – purché onesto – che non sia dignitoso, perché il lavoro possiede una dignità intrinseca che 'unge' chi lo compie. Tanto più quando l’operare con coscienza, impegno e capacità di costruire relazioni è a beneficio delle persone e della comunità, non un mero mezzo per il proprio arricchimento. Sono piuttosto le condizioni del lavoro e la remunerazione del lavoratore che invece spesso risultano non dignitose – e in questo condivido la sua tesi. Quando l’organizzazione di un’attività non garantisce la tutela della salute del dipendente o quando non viene assicurato un equo compenso per il mestiere svolto, questo sì toglie dignità. Non per nulla fra i peccati che «gridano vendetta al cospetto di Dio», san Pio X elencava il «defraudare della giusta mercede gli operai ». E nella nostra Costituzione, all’articolo 36, è scritto chiaramente che «Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Ecco il punto, allora, il tasto dolente sul quale lei giustamente batte: l’organizzazione moderna del lavoro, le leggi e i contratti, garantiscono oggi questo diritto a «un’esistenza libera e dignitosa» che – come lei dice – va oltre il pane quotidiano? Per la gran parte dei dipendenti possiamo rispondere di sì. Ma una porzione ancora significativa di giovani, di persone di mezza età che hanno perso precedenti occupazioni, di italiani e di stranieri emigrati in Italia, è ancora male-occupata e soprattutto sotto-pagata, pur svolgendo spesso attività tutt’altro che marginali. Anche per questo si discute oggi di introdurre pure nel nostro Paese un salario minimo orario da garantire a ogni lavoratore. Una scelta utile a due condizioni. La prima è che il salario minimo non sostituisca la contrattazione, ma sia ad essa complementare, per scongiurare il rischio che gruppi di dipendenti si ritrovino poi solo con il minimo e senza le altre tutele garantite dai contratti nazionali. La seconda riguarda la fissazione del livello del salario minimo, che sarebbe meglio sottrarre a una scelta politica 'a prescindere' e affidare invece a una commissione di tecnici e parti sociali che ne valuti l’effettiva applicabilità e congruità. Probabilmente anche l’introduzione di questo nuovo istituto non basterà da solo a garantire un trattamento 'dignitoso' a tutti i lavoratori, ma dovrebbe essere quantomeno un passo avanti nella direzione giusta. Lei, gentile lettrice, racconta con parole struggenti di non potersi permettere una pizza con gli amici, qualche piccola soddisfazione nella cura personale o acquistare quello speciale cibo dell’intelletto che sono i libri. Descrive un esercito di persone che si rimbocca le maniche tutte le mattine, pur sapendo che porterà a casa poco o nulla dal proprio lavoro. Ritenendo – non senza ragioni – che tutto ciò non sia «dignitoso». A me torna in mente la frase che pronuncia uno dei protagonisti del drammatico e amaro film di Ken Loach 'Il pane e le rose': «Noi vogliamo il pane, ma vogliamo anche le rose. Vogliamo tutte le cose belle, tutte le cose belle della vita ». Perché il pane ci è necessario per vivere, ma è solo la bellezza delle rose che colma il nostro desiderio di vita. E che, per fortuna, non si 'compra' solo con il denaro. Così come la dignità.