Solo la storia giudica quelle stragi. Piazza della Loggia: a sentenza 43 anni dopo
Una terra fatta rossa dal sangue sotto un cielo grigio come il piombo. Cosa resta di quella strage di 43 anni fa, quando i vecchi di oggi erano poco più che ragazzi e i ragazzi di oggi, anzi i giovani adulti di oggi, non erano nati? È difficile persino tramandare, oltre il racconto della morte e delle ferite il senso storico e umano di quella esplosione in Piazza della Loggia, a Brescia. E di ciò che insieme esplodeva nel cuore della gente, in termini di paura e d’angoscia, dopo la strage di Piazza Fontana, gli attentati sui treni, i neri fantasmi di rigurgiti neofascisti e le prime vampate delle brigate rosse.
Un crepuscolo tragico che preludeva a quella che poi fu chiamata la «notte della Repubblica». In questi 43 anni ci siamo sempre chiesti “chi è stato” a mettere quella bomba nel cestino dei rifiuti, tra la folla assiepata. Oggi finalmente una sentenza della Cassazione mette il sigillo su due persone condannate all’ergastolo. Uno è un medico che oggi ha 83 anni, e ai tempi era un ispettore di Ordine nuovo; l’altro è un uomo che fu confidente del Sid e infiltrato nelle stesso Ordine nuovo, e all’epoca aveva poco più di vent’anni.
I loro nomi sono in cronaca, e la loro storia giudiziaria li vede comparire tardi, dopo che altri cicli interi di processi si sono celebrati, gettando la rete nello stagno del movimento neofascista, e pescando condanne precarie mutate in assoluzioni in Appello e in Cassazione (1985), e poi con nuovi imputati assoluzioni in tutti i tre gradi (1989), e poi con altri ancora di nuovo assoluzioni in primo grado e in Appello e parzialmente in Cassazione (2014); parzialmente perché la Corte suprema ha separato dagli altri (rimasti assolti) la sorte di quei due che ha rinviato a nuovo giudizio d’appello, chiuso appunto con l’ergastolo, ora confermato. Pietra tombale, giustizia è fatta? È una frase che a volte si dice con soddisfazione, a volte con sarcasmo.
Undici sentenze in 40 anni, montagne di carte, alcuni ex indagati ora morti, uno mentre era in carcere ammazzato da detenuti della stessa area politica, gli altri tutti assolti, tranne questi due acciuffati nel finale, non è troppo magro bottino? Ma la giustizia non fa bottino; il suo frutto non si misura dalla quantità di teste che fa cadere. La giustizia cerca la verità, e i suoi mezzi sono quelli umani, e possono faticare a raggiungerla, e possono anche non raggiungerla dopo ogni sforzo; di fronte agli impianti accusatori, sciogliere i ceppi a chi non è stato trovato colpevole è il primo dovere; punire chi con certezza risulta colpevole è il compito simmetrico. Ma a rigore, né l’una né l’altra decisione – convinta, sì, argomentata, sì – attinge alla verità in sé, ma piuttosto alla certezza.
La certezza è il traguardo possibile delle sentenze; il giudicato, su cui non si discute più, per non girare all’infinito, si dice che sta per verità. Il nostro limite è però anche la nostra onesta sfida. Dopo quasi mezzo secolo è la storia che giudica gli anni delle stragi, delle dottrine eversive, del terrorismo, delle complicità e dei rischi. La giudica secondo la tenuta delle istituzioni e della comunità civile in mezzo agli attentati replicati negli anni. Maestra di vita, la storia, ora che un mondo più vasto riassaggia il terrore (e la sua folle venatura di ideale mortale), e vede il lavorio dell’odio nella distruzione della pietà umana. Giustizia è ricostruire, ricominciare. Giustizia è rinnovare la terra fatta rossa col sangue di chi non si rassegna ad avere sul capo un cielo grigio come il piombo.