I mali, la crisi e il gemito della città. Solo la solidarietà può salvare Roma
Papa Francesco ha recentemente detto, parlando di Roma: «Lasciamoci portare in mezzo al cuore della città per ascoltarne il grido, il gemito». C’è un lamento che sale dai Sette Colli e dalla loro immensa periferia; c’è una ferita aperta in quel corpo unico, fatto di monumenti, parchi, strade, case, del vissuto concreto di milioni di uomini, donne, bambini. Non pensate tanto alle carenze o agli errori di questa o quella Amministrazione, quanto piuttosto a un clima che si respira, certamente indotto da scelte che calano dall’alto, ma soprattutto conseguenza degli umori e degli atteggiamenti che muovono dal basso. La città è un libro difficile da leggere. Ma certo il corpo sociale è provato: i quadri tradizionali del vivere insieme si sono quasi dissolti, uomini e donne spaesati non hanno punti di riferimento, un tratto aggressivo sostituisce quello bonario di una volta. Sembra di cogliere una stanchezza, uno sfinimento, un avvilimento generali. Che si fanno rassegnazione o rabbia, su un orizzonte strettamente individuale.
Ognuno cerca la propria via tra le mille destinazioni possibili, ma non sogna o non lotta per un destino comune. È questo uno dei grandi mali di Roma. Quando una città perde spessore e va in crisi il suo sistema di reti connettive, solidarietà civica, identità urbana, prevalgono la paura e l’isolamento. Una città così non sarà in grado di offrire occasioni e serenità, di includere, di integrare. Per questo si è assistito a fenomeni di rifiuto, violenza, e anche razzismo, magari davanti a problemi di piccoli numeri cercando capri espiatori negli ultimi, come i rom, quasi che poche persone 'diverse' possano mettere in crisi un’intera città. Qui si tocca con mano la fine del senso interiore, della resistenza morale della città…
Occorre quindi compiere un’opera di ricucitura, e di tessitura. C’è bisogno di uscire di nuovo verso la città vista nel suo complesso. È anche necessario ripartire dai luoghi di più grave sofferenza, come il vasto mondo degli anziani isolati o soli, perché è da quella prospettiva che si comprendono meglio i cambiamenti, le fratture. Partire dagli ultimi significa partire dai sensori più recettivi di una città. È il cammino della Chiesa a Roma nelle sue varie componenti. «Abitare con il cuore la città» è il tema scelto dalla Diocesi di Roma per l’anno pastorale 20192020, per leggere il territorio e ascoltare i suoi abitanti e i vari ambienti di vita, con un’attenzione particolare ai poveri. È un programma che vuole rispondere alla sollecitazione del Papa che si è chiesto cosa Roma può e deve essere, per restare fedele alla sua eredità e alla sua missione nel mondo. Parlando in Campidoglio a marzo ha detto: «Lungo i suoi quasi 2.800 anni di storia, ha saputo accogliere e integrare persone provenienti da ogni parte del mondo. Questa città è diventata polo d’attrazione e cerniera. Cerniera tra il nord continentale e il mondo mediterraneo, tra la civiltà latina e quella germanica, tra le prerogative e le potestà riservate ai poteri civili e quelle proprie del potere spirituale».
È importante che «non perda la saggezza che si manifesta nella capacità di far sentire ciascuno partecipe a pieno titolo di un destino comune». La priorità è quella di ritrovare le ragioni per un destino comune dei cittadini romani e non per perseguire la strada del 'si salvi chi può'. Giovanni Paolo II, nel 1998, poeticamente diceva: «Roma, città che non temi il tempo. Roma, crocevia di pace e di civiltà, Roma, il cui nome letto a rovescio suona 'Amor', amore». Sì, la città non riparte se non attinge alle tante energie e risorse di bene e di condivisione che pure possiede. Occorre scommettere sulla solidarietà come atteggiamento umano, cultura urbana, nuovo senso civico, ricostruzione di un tessuto connettivo lacerato dal vivere a strappi. Roma è un destino comune: città che si ricompone attorno ai più fragili, che non lascia indietro nessuno, che sogna qualcosa di grande per tutti. È in questa Roma messaggio di umanità e di grandezza, che vorremmo riconoscerci, perché la sua eredità e la sua missione non si perdano nell’avvilimento, nello scontro, nella rassegnazione.