Opinioni

Le elezioni e la tenuta dei partiti tradizionali. SOLO IL VOTO SULLA BREXIT DIRÀ IL FUTURO DI LONDRA

di Marco Olivetti domenica 8 maggio 2016
Le elezioni locali svoltesi nel Regno Unito giovedì scorso hanno fatto notizia sui media di tutto il mondo per l’elezione di Sadiq Khan alla carica di sindaco di Londra: il 45enne deputato laburista sarà il terzo musulmano a guidare una metropoli occidentale (dopo i sindaci di Rotterdam e di Calgary) e il primo a condurre l’amministrazione della capitale di un grande Stato europeo. Il dato ha soprattutto un rilievo simbolico, in quanto indica un percorso di integrazione riuscito per il figlio di un conducente di autobus pachistano, già membro del Parlamento e dello staff dell’ex leader del Labour Ed Milliband e culminata nella conquista della Greater London Authority, il governo metropolitano della capitale britannica che dal 2000 ha un mayor eletto a suffragio universale. Ma l’elezione di Khan è al tempo stesso la sconfitta di un candidato conservatore poco attraente, Zac Goldsmith, figlio di un miliardario e per certi aspetti simbolo dei privilegi ereditari britannici – quasi quanto Khan lo è di un percorso di integrazione – e non certo un modello di 'vicinanza' agli abitanti di una città complessa, multietnica e multirazziale come Londra. Ed essa deve essere collocata sullo sfondo di un dato politico molto più articolato: oltre al risultato delle elezioni regionali in Scozia, Galles ed Irlanda del Nord, conta quello del rinnovo di 124 local councils in varie città inglesi. Si tratta tradizionalmente di un test importante, non solo per i destini del governo locale inglese (da secoli uno dei pilastri della democrazia d’Oltremanica), ma anche per il messaggio che esso trasmette al sistema politico nazionale, anche in vista dell’ormai prossimo referendum sull’Unione Europea in calendario per il prossimo 23 giugno, dato che nelle democrazie contemporanee le diverse consultazioni (nazionali e locali, elezioni e referendum) sono connesse fra loro. Da questo punto di vista, il passaggio elettorale di questa settimana ha una portata assai meno eclatante del risultato simbolico dell’elezione londinese. Nella sostanza il Partito Conservatore del primo ministro David Cameron ha mantenuto le sue posizioni e, pur perdendo la carica di sindaco di Londra, ha conquistato lo status di opposizione ufficiale nel Parlamento scozzese, sottraendola ai laburisti, in un contesto che ha visto la conferma (pur con una lieve flessione) dell’egemonia del Partito Nazionalista Scozzese (che ha conseguito la terza vittoria elettorale consecutiva nel Parlamento di Holyrood). I laburisti hanno tenuto in Galles (terra tradizionalmente rossa), ove sono stati i conservatori a perdere lo status di secondo partito, questa volta a vantaggio dei nazionalisti gallesi del Plaid Cymru (e a causa di una crescita degli eurofobi dell’UK independence party). Ma nel complesso i due grandi partiti hanno conservato le posizioni che avevano alla vigilia delle elezioni e ben pochi governi locali (salvo Londra) hanno cambiato colore: i conservatori non hanno subito il voto sanzione così frequente nella storia britannica per un partito di governo un anno dopo le elezioni generali. E nel campo laburista la leadership radicale di Jeremy Corbin non ha mostrato vistose crepe, dimostrando di non essere così disastrosa come alcuni temevano, ma senza dare prova di poter guidare il partito a una sfida vincente ai conservatori nelle elezioni generali del 2020. Vi è in fondo qualcosa di italiano, in queste elezioni inglesi in cui sembra che nessuno abbia davvero perso o davvero vinto, a parte Sadiq Khan e Zac Goldsmith. Un dato interlocutorio, dunque, ben diverso da altre recenti elezioni regionali in grandi Stati europei (in Baden Württemberg, Sassonia-Anhalt e Renania-Palatinato il 13 marzo e in Francia nel dicembre 2015) che avevano inviato chiari segnali di sfiducia verso i partiti tradizionali, con l’ascesa di forze anti-establishment e anti-Europa (i germanici di Afd e il Fronte Nazionale). I partiti tradizionali inglesi sono oggi molto più deboli rispetto a qualche anno fa (i conservatori si sono attestati sul 30%, poco sotto il 31 dei laburisti nel complesso del Regno Unito), ma non hanno accusato ulteriori cedimenti. Il risultato di giovedì, infine, dice abbastanza poco anche nella prospettiva dell’imminente referendum sulla Brexit, la cui campagna elettorale sta per entrare nella sua fase finale. Anche da questo punto di vista non ci sono segnali probanti, dato che i partiti tradizionali hanno mantenuto le posizioni e gli stessi eurofobi dell’Ukip non hanno fatto registrare se non progressi marginali. Del resto il grande confronto sulla Brexit si svolge soprattutto all’interno dei grandi partiti nazionali, anzitutto i conservatori (ma in misura minore pure i laburisti), dilaniati dal dilemma sul lasciare l’Unione o restarvi. © RIPRODUZIONE RISERVATA