Opinioni

Nuova sindrome Fomo, antica invidia. Social network, vita da spettatori

Luigi Ballerini mercoledì 5 novembre 2014
Colpisce i giovani e si chiama Fomo, o almeno l’hanno chiamata così gli americani che, si sa, sono degli ottimi classificatori. Fomo è il nuovo acronimo che sta per Fear Of Missing Out, la paura di essere tagliati fuori, di essere esclusi. Si tratta di un fenomeno legato ai social network e coincide con l’angoscia crescente che deriva dall’assistere in rete a testimonianze di eventi cui non si partecipa. Che siano foto su Instagram o post nella bacheca di Facebook o stringhe di testo su Twitter fa poca differenza: le immagini e le parole documentano feste, cerimonie, gite, successi di altri di fronte ai quali sembra che non resti altro che interpretare la parte di spettatori, per lo più involontari. L’effetto sarebbe analogo a quello di guardare dalla vetrina gli avventori di un ristorante che mangiano soddisfatti e contenti mentre noi si resta affamati e al freddo sul marciapiede.  Questa angoscia pare colpisca soprattutto i giovani, le cui esistenze sono così immerse e impastate dentro i social network, ma non risparmia gli adulti nel processo di adolescentizzazione che è da tempo in corso nella società . Ci sono alcuni non detti, però, rispetto a questa (presupposta) nuova sindrome.  Per prima cosa non si chiama la questione col suo vero nome: non c’era bisogno di creare un acronimo, la parola giusta era già presente nei nostri vocabolari e la troviamo sotto la voce invidia. Invidia è quell’affetto che non coincide affatto col desiderare il bene dell’altro (alla festa vorrei esserci anch’io con te) quanto col desiderare che l’altro non abbia affatto quel bene (vorrei che a quella festa non ci fossi nemmeno tu). Messa così non è una faccenda nuova, anzi esiste dall’inizio dei tempi. Ma il secondo punto va più a fondo: invidia di che cosa? Nell’epoca in cui il primato va all’immagine siamo sempre più disposti a credere a tutto ciò che vediamo. Senza necessariamente sospettare la presenza dei ritocchi di Photoshop che manipolano e alterano la realtà, siamo veramente convinti che una foto in cui tutti ridono rappresenti una festa dove davvero ci si diverte? Gli attimi congelati e condivisi dagli altri sui social corrispondono realmente a qualcosa di imperdibile per noi?  Una vita sempre più rappresentata non è detto che sia analogamente più vissuta. Anzi. Sembra proprio questo il tempo in cui tutti stanno (solo) a guardare. Guarda, colui che invece di fare esperienza si preoccupa di documentarla. Ecco allora che smette di godere pienamente di ciò che vive, diviene preda della smania di imprigionare l’istante dentro un’immagine da condividere istantaneamente nei social network. Il senso e la valenza dell’accadere verrà poi dettato dai mi piace che è capace di recuperare, più che dal giudizio personale al riguardo. E, diciamolo, anche dall’invidia che saprà suscitare. Guarda, colui che invece di prendere l’iniziativa e muoversi individualmente tiene sotto controllo la vita degli altri sullo schermo del cellulare, in una posizione melanconica e rivendicativa incapace di gioire per i successi altrui. Rischiamo di stare tutti alla finestra, dirimpettai gli uni degli altri. Cerchiamo di eternizzare e cristallizzare in una foto ciò che proviamo, senza sapere bene cosa stiamo provando e forse senza provarlo veramente. Tirati per la giacca da emozioni senza giudizio, le condividiamo senza racconto.  Così facendo, infatti, sparisce la narrazione, perché narrare presuppone vivere e vivere intensamente e sapere cosa si vive e volerlo dire in primis a chi ci interessa e poi potenzialmente a tutti. Non permettiamo che la nostra vita diventi un puro documentario, lasciamola essere quel bellissimo romanzo che sappiamo scrivere ogni giorno. Ora dopo ora, parola dopo parola.