Analisi. I social e la crisi degli intellettuali, così sta vincendo il populismo
Torna d’attualità l’analisi del sociologo americano Robert Putnam sulla tradizione civica delle regioni italiane Nel 1993 Robert Putnam pubblicava La tradizione civica nelle regioni italiane. Questo originale e rigoroso sociologo americano aveva osservato, giorno dopo giorno fin dal 1970, quel che l’istituzione delle 20 Regioni aveva provocato nei quattro punti cardinali di Penisola e Isole. Tutte allineate al nastro di partenza (per l’appunto la prima legislatura del decentramento dello Stato) in venti anni alcune avevano però conosciuto un balzo notevole di sviluppo, benessere e welfare. Ma altre avevano invece accentuato negativi dualismi in tutti i campi. Per esempio, le Tre Venezie si erano lasciate alle spalle la secolare depressione economico-sociale e crescevano a ritmi asiatici nelle manifatture industriali e artigianali anche sotto la sferza della grave crisi finanziaria del 1992. Analogamente era accaduto alle Regioni Rosse (Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Marche). Il Lazio stava 'in mezzo', non solo geograficamente, ma grazie ai redditi provenienti dal pubblico impiego (un pachiderma da 700 mila addetti). L’Abruzzo si era modernizzato con equilibrio. Mediocri o addirittura compromesse le chance, pur notevoli in partenza, delle Regioni del Sud e delle Isole. Anzi, lì l’economia di carta della contribuzione statale 'a fondo perduto' aveva ingrassato le clientele vecchie e nuove. Per non parlare di come su tale contesto si era gettata la criminalità mafiosa, accaparrandosi appalti e finanziamenti, nazionali ed europei.
Putnam prendeva le mosse da un quesito semplice, dalle implicazioni profonde. Perché l’occasione di programmare la crescita civile e economica – per l’appunto il regionalismo – aveva avuto esiti del tutto opposti, con un taglio netto al 42° Parallelo Nord. Incredibile: quella linea geografica segnava con precisione il confine dei dualismi. E più ancora la separazione crescente dei destini del Paese. Guardando alla politica, nel 1993 l’allora Lega Nord aveva esibito un exploit, contribuendo all’8 settembre delle vecchie classi dirigenti locali e centrali. Il declino della guida morale dei grandi statisti – che pur avevano risollevato l’Italia del Dopoguerra – faceva il paio con la ritirata (e anche con il trasformismo) di molti uomini di potere affermatisi, spesso parassitariamente, all’ombra dei Padri della Patria. Ma qual era il fattore che per il sociologo americano aveva influito, dopo il 1970, sulle sorti delle società regionali? Putnam utilizzava un concetto potente: il capitale sociale accumulato con le tradizioni civiche. Laddove preesisteva un tessuto di mutualità, di comunità civili e religiose, di esperienze di solidarietà, di gratuità, di identità culturali-morali, di associazioni di mestieri e di collaborazione, più l’Ente Regione era stato colto come un’opportunità. Nel Veneto 'bianco' come nell’Emilia 'rossa'. Politica partecipata e collaborazione si presentavano «come uno scambio in cui i partecipanti traggono vantaggio dall’essere insieme» (Sennett).
Dove le 'scorte' di capitale sociale risultavano più modeste, anche la depressione economico-sociale, nonché l’inefficienza della pubblica amministrazione e dei servizi si mettevano in clamorosa evidenza. Da un lato, la prevalenza dell’azione comune per profonde motivazioni, persino antropologiche; dall’altro il clientelismo, la passività e l’individualismo che valevano a rendere poco più di una nicchia la partecipazione civica. Forse era una distinzione troppo drastica, ma Putnam la documentava con dati, tabelle e ben fondati indicatori. Ma, ecco il punto, del concetto di capitale sociale si devono distinguere due accezioni. La prima è di capitale sociale 'inclusivo', cioè mutualità, solidarietà, partecipazione confluiscono e si estendono nelle relazioni sociali di una città, di un quartiere e di una regione. Le grandi tradizioni democratiche del Novecento, tanto quella cattolico-popolare quanto quella di derivazione social-comunista o repubblicana, hanno raccolto e alimentato a loro volta quel patrimonio di capitale sociale bridging (che unisce). Era dovuto anche a questo tratto la stabilità dei comportamenti elettorali, che avevano come retroterra la fitta trama di istituzioni di sussidiarietà quali cooperative, mutue, banche popolari e casse rurali, associazioni familiari, istituti scolastici sorti già prima dell’istruzione obbligatoria, confraternite, volontariato, opere di carità. Appariva naturale tradurre i valori della partecipazione in opzioni etico-politiche.
Ma accanto alla versione 'inclusiva' del capitale sociale esiste, anche quando si inabissa come un fiume carsico, un’altra versione. Che rafforza proprio le motivazioni dell’ostracismo, della coesione contro il diverso, il bisognoso, lo straniero. capitale sociale bonding, in questo caso. Che chiude, alza muri, che stravolge le relazioni di vicinato in coalizione ostile. Cambia il linguaggio. Le parole si fanno cattive. Il lievito, guarda caso, è la paura, la faziosità, l’angoscia per il futuro. In assenza di leader e figure educative, il capitale sociale sclerotizza la comunicazione, accoglie le più pericolose tossine. E arriviamo al punto. Perché le Regioni che erano storicamente connotate dalla solidarietà nelle più svariate forme – semplicemente umana, sociale, politica, confessionale – e che anche a mio parere nel profondo sono ancora con questo tratto – hanno oggi accolto il richiamo della demagogia dell’ostracismo e del sentimento aggressivo? Propongo di cercare la risposta analizzando due fattori.
Il primo di questi è la fine della prossimità del tessuto politico alla vita quotidiana delle persone. È invalsa l’idea che con apparati di potere, con risorse materiali per farsi strada nei mass media, con la cura ossessiva all’immagine esteriore si possa fare a meno del rapporto vis-à-vis, dell’empatia. Insomma, i 'rappresentanti' si sono collocati ben distanti dai 'rappresentati', quindi estranei al capitale sociale di questi ultimi. E così il capitale sociale da 'convertitore' della prospettiva del singolo in cognizione del bene comune si è mutato in catalizzatore di un neo-familismo amorale: non il sentimento della famiglia naturale, ma esaltazione della famiglia sociale degli abitanti di un dato luogo. Abitanti accomunati dalla perdita di prospettive (occupazione, reddito, status sociale, valore del patrimonio personale e del risparmio ecc.) e privi di un adeguato interprete democratico di tale declino personale. E allora che lo 'scambio collaborativo' prende la forma della distruttività. Il capitale sociale si diffonde nella sua accezione bonding, di chiusura, di muro.
L’altro quesito è sullo smarrimento della 'missione del dotto', per citare l’opera dell’illuminista tedesco J.G. Fichte. Si è eclissato l’intellettuale – non tanto il letterato – che propone sintesi e visioni, che stimola anche nelle persone semplici curiosità e desiderio di apprendimento. Che ascolta, medita e risponde con umiltà. Tutt’altro animato che dallo snobismo, che rifugge dal connotato dei ceti da qualcuno definiti 'riflessivi' (magari per distinguerli dai popolari, evidentemente 'irriflessivi' o 'pancia del Paese'). Quando i ceti 'riflessivi' – con i loro opinion leader designati – parlano dei drammi, delle povertà, delle migrazioni riescono a provocare in settori della popolazione una percezione di estraneità. L’accusa è: voi vi occupate dei migranti, ma non avete alcun’attenzione per noi. Non vivete con noi né fate la fila agli ambulatori delle Asl e ben sapete scegliere dove trarre i benefici dello Stato. Eppure, delle persone colte c’è bisogno, eccome. Colte, umili ed empatiche: virtù non spontanee, ma frutto di autoeducazione. Che aiutino la collaborazione, specie in condizioni difficili. È troppo sperare in una nuova leva di uomini sobri – nella politica, nelle professioni, nei luoghi di lavoro – che aiutino i singoli e i gruppi a prender coscienza delle conseguenze di quel che si agisce (e si pensa)?
Sociologo, docente negli istituti di formazione delle Forze di polizia statali e locali