Opinioni

In discussione ruolo e consenso delle forze maggiori. Se il ceto politico usa le piazze per difendere se stesso

Sergio Soave lunedì 15 marzo 2010
Il panorama politico italiano, caratterizzato dal ricorso alla piazza da parte dei maggiori schieramenti politici che si protestano vittime di persecuzioni, lascia sconcertati. Un osservatore straniero ha commentato la situazione particolare che si vive nel nostro Paese, osservando che è come se da noi i problemi della crisi economica non interessassero nessuno. In effetti le proteste che vengono portate in piazza, cioè nel luogo destinato tradizionalmente al confronto tra il ceto politico e i cittadini, in cui il primo propone ai secondi le soluzioni che considera adatte ai problemi del momento, hanno invece un senso del tutto diverso. Il ceto politico di maggioranza e di opposizione (con la sola eccezione dell’Udc) chiede ai cittadini di mobilitarsi in difesa di suoi diritti che sarebbero stati calpestati, vuoi da una "persecuzione" giudiziaria, vuoi da un uso debordante dei poteri di governo. Protesta e vittimismo hanno occupato lo spazio che dovrebbe essere destinato alla proposta e all’assunzione di responsabilità, quelli che si propongono come classe dirigente invece di spiegare ai cittadini come intendono aiutarli a superare le loro difficoltà, chiedono, all’inverso, che siano i cittadini a sostenerli nella battaglia che conducono a difesa della propria immagine e delle proprie prospettive politiche, insidiate dal "nemico". Persino in campo sindacale si è assistito, con lo sciopero generale della Cgil che aveva al centro il "potere sindacale" e non una piattaforma  rivendicativa in grado di aprire un confronto effettivo con la controparte governativa o con le rappresentanze di impresa, a una sorta di inversione tendenziale del rapporto tra rappresentanti e rappresentati. Si tratta di un fenomeno sconcertante, in senso letterale, che crea perplessità e disagio nei cittadini che dal confronto politico e dal dialogo sociale si aspettano la prospettazione di soluzioni tra le quali scegliere democraticamente e serenamente, e si trovano invece di fronte a ragionamenti, se così possono essere definiti, dedicati per una parte assolutamente preponderante a delegittimare l’avversario e solo in misura irrisoria a contrapporre alle sue proposte, se si tratta dell’opposizione, o alle scelte concretamente operate, se si tratta del governo, alternative ragionevoli e convincenti. Un modo di fare di questo tipo, che mette in primissimo piano gli insulti e le invettive, rischia di convincere molti che, se sono fondate le accuse reciproche, è tutto il ceto politico a non risultare credibile, il che ovviamente non spinge alla partecipazione politica ed elettorale. In questo quadro evidentemente trovano maggior spazio le posizioni estreme e radicalizzate, mentre le formazioni maggiori, che raccolgono tradizionalmente anche il consenso delle fasce meno politicizzate, rischiano di pagare il conto più salato. Se non riescono a sottrarsi al gioco della reciproca demonizzazione, in nome della loro responsabilità primaria di forze potenzialmente maggioritarie, se invece che grandi partiti si riducono ad essere solo partiti grossi, rischiano di perdere il ruolo di baricentro dei diversi schieramenti che l’elettorato ha conferito loro. Le lezioni regionali sono l’ultimo confronto della legislatura, dopo ci saranno circa tre anni nei quali non dovrebbe prevalere la propaganda sulla politica. Dovrebbe essere la stagione del dialogo e della ricerca di soluzioni comuni a temi complessi come quelli che investono la struttura istituzionale. Qualcuno ha interesse ad avvelenare i pozzi per rendere impraticabile il dialogo, c’è solo da sperare che l’arroventamento artificioso dello scontro di piazza di questi giorni non finisca per dare ai rinfocolatori un vantaggio irrecuperabile.