Opinioni

Truci frasari e bispensiero orwelliano. Smettiamola un po' tutti di chiamarla "guerra"

Luca Miele venerdì 10 aprile 2020
Smettiamola un po' tutti di chiamarla "guerra"

Quello in cui il coronavirus ci sta facendo affondare è un terreno sdrucciolevole, melmoso. Siamo dinanzi a qualcosa di cui abbiamo perso memoria (l’ultima grande epidemia si era consumata in Europa nel biennio 1918-1920) e per questo ci appare inafferrabile, sfuggente, scivolosa. Siamo confusi, smarriti. E spaventati. Temiamo per la nostra vita. E temiamo che possa crollare il nostro modo di vivere. Vogliamo essere rassicurati. Niente di più facile, in questa situazione, che ricorrere a un armamentario concettuale già in nostro possesso: quello della metafora bellica. Abbiamo a che fare con un «nemico», gli ospedali si sono trasformati «in trincee», i medici che hanno perso la vita sono dei «caduti ». Siamo insomma, e lo si ripete ovunque, «in guerra». Ma è davvero così? Siamo davvero in guerra? Non richiede la situazione attuale – che giova ricordarlo è un’emergenza socio– sanitaria – una nettezza non solo dei comportamenti ma anche delle parole e del loro significato?

L’utilizzo della retorica bellica – «siamo in guerra» – serve, in realtà, a introdurre elementi che poco servono ad affrontare l’emergenza. E che anzi la inquinano, falsandone la narrazione, alterandone i contorni. La spingono su un terreno che poco ha a che fare con l’emergenza che siamo vivendo. Ma, se è così, l’uso della retorica bellicista a cosa obbedisce? Cosa rischia di far passare?

La retorica bellica serve innanzitutto (ed è servita purtroppo) ad accompagnare e motivare la sospensione delle libertà civili, a far digerire lo “stato di eccezione”. È un fatto. Le libertà sono sospese. In nome di una responsabilità collettiva: il contenimento dell’epidemia. Bene, giusto, necessario, condivisibile. Ma l’esercizio della responsabilità collettiva – e dunque l’apertura e la condivisione di uno spazio etico – poteva avvenire solo attraverso una normativizzazione, attraverso cioè l’imposizione di un sistema di sanzioni e divieti? Ripetuto, strillato lo slogan «siamo in guerra» introduce surrettiziamente la retorica del sacrificio. Se siamo in guerra, possiamo mandare allo sbaraglio i nostri medici, senza adeguata protezione. È quello che è avvenuto. Smontare la retorica della guerra serve a questo: a chiarire che i medici sono lavoratori e sono persone. Tutelate. Nel diritto alla salute. Ma anche nel diritto al riposo, agli affetti. La retorica della guerra è così servita a occultare le responsabilità di chi doveva garantire che quel primo argine all’infezione potesse operare in sicurezza, salvaguardando se stessi e gli altri.

Ma la retorica della guerra nasconde anche un’altra insidia. Essa semplifica e travolge le procedure, annienta le mediazioni (il Parlamento ne è il triste emblema: da legislatore e controllore appare ridotto a sede delle ratifiche degli atti di governo, e le stesse opposizioni, in esso, sembrano avere interesse quasi solo a polemiche d’occasione). Calamita gli umori di quanti chiedono risposte forti (e semmai “uomini forti”). Mortifica fino a zittirla la complessità, e con essa la democrazia. In quella splendida distopia che è 1984 di George Orwell, una delle misure attraverso a cui ci si affida il Grande Fratello è l’imposizione del “bispensiero”. Perché ogni cosa possa esprimere assieme un senso e il suo contrario («La guerra è pace» recita uno degli slogan) – nella narrazione orwelliana – è necessario che ogni parola si perverta, smetta di avere una leggibilità comprensibile, unica. Restituiamo alle parole il loro significato. La nostra è un’emergenza socio-sanitaria. Non chiamiamola guerra.