Il più eloquente dei segnali si è avuto qualche giorno fa nel cuore di Beirut, quando opposte fazioni di sunniti vicini al movimento
Al Mustaqbal
dell’ex premier Saad Hariri si sono scontrate con milizie sciite nel quartiere di Jabal Moshen, dando vita non a un episodio di guerriglia urbana, ma a qualcosa di molto simile – visto l’impiego di lanciarazzi e armi pesanti – alla guerra civile. Pochi giorni prima, nel Nord del Paese dei Cedri, i religiosi sunniti Ahmad Abdul Wahed e Mohammed Hussein Merheb erano rimasti uccisi a un posto di blocco mentre si recavano ad una manifestazione anti-siriana nella provincia di Akkar; quale probabile ritorsione, l’Esercito Libero Siriano (Els) che si batte contro il governo di Damasco ha rapito 12 pellegrini sciiti libanesi che transitavano in Siria di rientro dall’Iran.Inutile nascondersi dietro l’illusione che il Libano – scintillante piazza finanziaria del Medio Oriente, terra di grandi affari, di banche, di un’espansione edilizia senza precedenti, di ambizioni mondane e sportive (la Formula 1 da strappare al Bahrein e a Abu Dhabi) – possa evitare di convivere con l’eterno pericolo della guerra. Perché il pericolo, come hanno sottolineato in questi giorni il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, il dipartimento di Stato americano e il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, e non da ultimo il ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi, è ormai molto vicino.Epicentro del contagio, la Siria di Bashar Assad, «ma il teatro della più probabile delle escalation – ci racconta l’editorialista di
L’Orient-Le Jour Issa Goraieb – sarà certamente il Libano, dove si finisce sempre per pagare le colpe e le esitazioni delle grandi potenze, come accade anche oggi con la vicenda siriana». Il Libano ha una dolorosa quanto lunga memoria della guerra civile: dal 1975 al 1990 gli scontri fra fazioni opposte – drusi, palestinesi, falangi, sciiti – hanno flagellato il Paese lastricandolo di morti, per poi consegnarlo di fatto a un ferrigno protettorato siriano. Fino a quella "Rivoluzione dei Cedri" avvenuta nel 2005, all’indomani dell’assassinio del premier sunnita Rafik Hariri, che indusse la Siria a ritirare le proprie forze armate dal Paese, non senza aver lasciato ombre lunghe quale mandante dell’omicidio.Fummo facili profeti quando un anno fa di questi tempi prefigurammo una guerra di religione mascherata da contesa politica e attuata attraverso l’uso delle armi: il mondo sunnita (sostenuto principalmente da Arabia Saudita, Qatar e Emirati del Golfo) e quello sciita (finanziato da Teheran) sono allo scontro aperto, in Iraq come in Siria, dove la nomenklatura alawita (quella cioè cui appartiene il clan degli Assad) si rifà all’undicesimo imam sciita. Braccio secolare degli sciiti iraniani e siriani è il movimento Hezbollah dello sceicco Nasrallah, che oggi (con rituale pretattica politica) invita alla calma, ma che è pronto – come già nel 2006 nel conflitto con Israele e nel 2008 durante un braccio di ferro con il governo libanese – a prendere le armi e a mettere in campo la sua potenza militare in quell’area a sud del fiume Litani che non a caso tutti chiamano "Hezbollahland" e dove proverbialmente «non cade foglia che lo sceicco non voglia».Il Libano stesso non è scevro da colpe: nelle sue province si combatte una guerra per interposta persona, si comprano e si vendono armi, si fanno arrivare mezzi, denaro e aiuti ai ribelli siriani, così come emissari di Damasco agiscono, cospirano, uccidono per le vie di Tripoli, di Beirut, di Baalbek, di Byblos. In più c’è quel vizio antico che ogni libanese nasconde nel proprio intimo, come ricordava il patriarca maronita Béchara Raï: «Quello di far capo alla propria etnia o al proprio credo e non a un sentimento comune di Patria: è lo Stato a dover proteggere i cittadini, non le singole milizie armate». Parole di pace in un ribollente calderone dove la scintilla di una guerra estesa all’intera nazione sembra poter scoccare da un momento all’altro ma dove anche – come varie volte è accaduto – i venti di guerra come d’incanto si placano e il Libano riprende a galleggiare sulla brace eterna delle sue discordie.