Opinioni

Editoriale. Singolo, squadra, Paese. Cosa ci lasciano gli Europei di atletica

Chiara Vitali giovedì 13 giugno 2024

Chiara Vitali

I piedi sono sui blocchi di partenza, le gambe piegate, le mani poggiate sulla pista. Senti il cuore in gola e qualcosa che si agita nel petto. Stai partecipando alla gara più conosciuta dell’atletica, i cento metri di velocità. Attorno a te c’è un intero stadio in silenzio, un’assenza di rumori che imponi anche alla tua testa. Nessun pensiero intrusivo deve entrare. Poi – ready, set, go! – la gara inizia. Le gambe girano, girano, fino a che il traguardo non è a un passo. Lo superi, la gara finisce, puoi riprendere a respirare. Lasci che le emozioni fluiscano e le gambe rallentino. Poi, se ti chiami Marcell Jacobs, ti rendi conto di essere diventato campione d’Europa. E allora ti metti la bandiera tricolore sulle spalle, esulti, abbracci chi hai intorno. Lo stesso se ti chiami Matteo Melluzzo, Lorenzo Patta, Filippo Tortu: hai appena vinto la staffetta 4x100. Se ti chiami Sara Fantini sai di avere lanciato il martello più in là di tutte le altre e se ti chiami Gianmarco Tamberi sai di avere saltato più in alto di tutti. Lo stesso per Simonelli, Crippa, Fabbri, Battocletti, Palmisano e l’elenco potrebbe continuare, dato che l’Italia nell’ultima settimana di europei ha battuto ogni record e portato a casa 11 ori, 9 argenti e 4 bronzi. “Stiamo vivendo un sogno che nemmeno noi credevamo potesse essere così grande” ha commentato ieri il presidente del Coni, Giovanni Malagò.

Questi Europei hanno confermato un trend che è iniziato nel 2021 con le vittorie di Jacobs e Tamberi alle Olimpiadi: gli appassionati dell’atletica leggera stanno crescendo (nella serata finale degli europei, davanti alla televisione c’erano 4,7 milioni di italiani). Ad attirare sono i risultati, certo, ma anche i volti giovani di un’Italia che non ha paura di puntare in alto, di superarsi. Per l’atletica dopotutto ci vuole costanza, pazienza, fiducia nelle proprie capacità. E poi ci sono altre caratteristiche meno visibili ma ben conosciute da chi sulla pista ha passato degli anni pur senza diventare un campione. Capita spesso, in Italia i tesserati Fidal sono centinaia di migliaia (nel 2023 erano 240mila).

Ad esempio, l’atletica è uno sport individuale, e questo è vero. Ad eccezione di gare come la staffetta, ogni risultato appartiene al singolo atleta che lo raggiunge esclusivamente con le proprie capacità. Ma dietro ogni gesto c’è un continuo lavoro di squadra e relazione. C’è il rapporto con i compagni di allenamento, che capiscono realmente quanta differenza possa fare un millesimo di secondo, un mezzo centimetro o una folata di vento che corre in direzione contraria alla propria. Sanno quando condividere con te una borraccia, quando tenerti la testa mentre vomiti per la fatica, quando gioire. C’è la relazione con l’allenatore che ha il compito di vedere il meglio di ciascuno e di valorizzarlo. Ci sono gli avversari che raramente diventano nemici perché la sfida comune è superare un limite e chi lo fa meglio sa meritarsi la stima di chi rimane indietro. Gli abbracci abbondanti che abbiamo visto in questi europei, anche tra rivali, lo confermano.

La pista di atletica, poi, è il luogo dove il corpo può prendersi il suo spazio. Ciascuno scopre un talento personale, diverso dagli altri, e impara che allenarlo è obiettivo e missione. Ogni corpo trova la sua dimensione e la abita con potenza. Si impara ad ascoltarlo, il corpo, a rispettarlo, e contemporaneamente ad abituarlo alla fatica. E poi gli si chiede di conquistare una libertà di movimento che fa bene a tutta la persona. In pista si crea un microcosmo che ha regole precise, un linguaggio, un metodo. Si ride tanto, si piange tanto.

Tutte esperienze che rimangono preziose per qualunque altra sfida, dentro e fuori dalle arene sportive. Anche per questo è così bello vedere i nostri campioni riconosciuti come patrimonio comune di tutto il Paese.